Progetto REC / Progetto Teatro Palestina / Arti Performative / Teatro / Interviste / Oggi si parla della striscia di Gaza solo per la guerra in corso tra Hamas e Israele. La cronaca ci racconta delle migliaia di innocenti che stanno perdendo la vita e delle città rase al suolo dalle bombe. Il mondo è impazzito e, quel che è peggio, ci stiamo abituando all’orrore.
Eppure tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023, in un contesto che adesso sembra appartenere a un’altra epoca, un nutrito gruppo di operatori italiani si è recato in questo lembo di terra di 360 km² per realizzare lo spettacolo teatrale All that’s left to me (il titolo è una parafrasi del libro di Ghassan Kanafani, All that’s lef to you). Su questo sito è pubblicata anche la testimonianza di una delle autrici/attrici, Ala’a Sbaih, disponibile QUI.
Il dramma che ha debuttato al Ayyam Al Masrah (Theatre Day Productions – https://theatreday.org/), si ispira all’Odissea, il poema del viaggio di ritorno, e racconta la storia della Palestina, una terra nella quale i profughi non possono tornare e dalla quale i giovani non possono andarsene.
È stata una delle tante iniziative di Progetto REC (Ricerca e cultura), organizzazione no profit impegnata in attività in Palestina e non solo, (@ProgettoREC) con la collaborazione di Centro Vik di Gaza (https://centro-vik.org/), dedicato a Vittorio Arrigoni e presieduto dalla coriacea Meri Calvelli, e ONG ACS Italia (https://www.acs-italia.it/). Dallo scoppio della guerra Progetto REC promuove anche una raccolta fondi per il sostegno alla popolazione palestinese che potete trovare QUI.
Abbiamo incontrato due membri di Progetto REC, Simon De Domenico, regista, drammaturgo e responsabile Richelieu del Teatro Delfino e Ivan Taverniti, regista, attore e docente della scuola Mohole di Milano che in prima persona hanno coordinato le diverse fasi della realizzazione dello spettacolo.
Com’è nata l’idea di uno spettacolo nella striscia di Gaza?
Progetto REC, l’organizzazione di cui facciamo parte, è attiva soprattutto a Gaza. Tra i suoi principali obiettivi c’è quello di favorire scambi interculturali. Fin dai primi passi, il teatro ci è parso il mezzo più efficace per dare vita a questo incontro tra culture, la nostra e quella palestinese. Ci teniamo, però, a dire che il progetto non si è limitato a mettere in scena un singolo spettacolo, ma aspira a costituire una compagnia teatrale internazionale con base a Gaza.
Perché uno spettacolo sull’Odissea, proprio in Palestina?
L’Odissea è un poema fondante della cultura occidentale. Contiene molti degli archetipi che hanno caratterizzato la nostra produzione letteraria e artistica. Difficile trovare un’opera che si presti di più al nostro desiderio di scambio e confronto tra mondi diversi. C’è da dire che a pochi in Palestina sono note le disavventure di Ulisse. Quando all’inizio abbiamo presentato il progetto, per inquadrare il poema di Omero, ci siamo richiamati al film Troy con il depilatissimo Brad Pitt nel ruolo di Achille o al videogioco God of War in cui Zeus, Ercole e altri personaggi della mitologia greca se le danno di santa ragione. Se le ragazze e i ragazzi con cui abbiamo lavorato avevano qualche vaga nozione, lo si deve a questi prodotti.
La cosa non deve stupire, quanti di noi conoscono l’epopea di Gilgamesh? O il Ramayana di Valmiki? Eppure, il vantaggio di un grande capolavoro come l’Odissea è che, per la sua natura universale, parla a tutti. Non è stato difficile individuare temi comuni, a partire da quello del diritto al ritorno.
Molti dei partecipanti erano alla prima esperienza teatrale, quali criteri avete adottato per formare la compagnia?
Con l’aiuto di Karam Jad, membro gazawo di Progetto REC e coordinatore della compagnia, abbiamo organizzato delle selezioni a distanza. Per prima cosa, abbiamo fatto compilare un modulo per vagliare la motivazione dei candidati. Conclusa questa prima scrematura, abbiamo fatto dei provini a distanza. L’unico vero requisito era la conoscenza della lingua inglese, non era richiesta nessuna esperienza teatrale pregressa. Al termine delle selezioni la compagnia contava sette ragazze e cinque ragazzi tra i venti e ventisei anni.
In questo ambizioso progetto, la stesura del copione è tra gli aspetti che più mi affascinano e, al contempo, mi lasciano perplesso. È l’esito di un lavoro collettivo firmato da dodici giovani palestinesi. Come siete riusciti a scrivere un testo teatrale, mettendo d’accordo tante sensibilità diverse? Questa domanda la rivolgo soprattutto a Simon che ha coordinato la fase di drammaturgia.
È stata una fase complessa che ha richiesto circa sei mesi di intenso lavoro. E se siamo riusciti a portarla a termine il merito va anche a Giulia Borghi e Stefania Buraschi, due drammaturghe diplomate alla Paolo Grassi, che mi hanno aiutato nella gestione del gruppo. Tutti e dodici i partecipanti hanno voluto prendere parte alla stesura del copione, così, partendo dall’analisi del testo omerico, si è arrivati a imbastire una storia che potesse rappresentare in pieno le speranze della gioventù palestinese.
Inizialmente, abbiamo proposto degli esercizi di scrittura teatrale, parte di questi primi scritti, per esempio alcuni monologhi sul tema della “casa”, sono stati, in seguito, integrati nel copione. Poi abbiamo cercato di mettere a fuoco il nucleo della storia, per ottenere questo risultato ho diviso i ragazzi in piccoli gruppi, tutti avevano il compito di proporre un concept di uno spettacolo basato sull’Odissea. Ho dato loro massima libertà, potevano adoperare un registro comico o raccontare la storia dalla prospettiva di un personaggio secondario, potevano cambiare l’arena e attualizzarla ai giorni nostri o, persino, cambiare la trama, perché in fondo la nostra intenzione era proprio quella di meticciare l’Odissea con la cultura palestinese.
A cadenza settimanale, in genere nei weekend, ci trovavamo in videoconferenza su Meet o su Zoom. Ogni gruppo faceva il pitch della propria proposta, e tutti gli altri erano chiamati a commentare. In questa prima fase mi interessava di più perfezionare la loro capacità di analisi e di critica che la qualità della loro scrittura. Trascorsi un paio di mesi, grazie anche a feedback sempre più puntuali, si è arrivati a uno spettacolo che combinava le idee più significative dei diversi concept. È stato meraviglioso convogliare le composizioni su un’unica storia in modo così naturale. Significava che nel gruppo, anche se molto eterogeneo, c’era una piena condivisione.
A quel punto, con modalità simili, sempre divisi in piccoli gruppi, abbiamo iniziato a scrivere le scene. Ogni settimana un gruppo inviava una scena, mentre un altro era incaricato di farne l’editing; a Giulia, Stefania e me spettava il vaglio finale. In questa seconda fase, come è naturale, ha fatto capolino qualche difficoltà in più. Scrivere in due è molto difficile, bisogna allineare gusti e sensibilità diverse, scrivere in dodici è una missione quasi impossibile.
Oltre a coordinare la stesura del testo abbiamo dovuto gestire qualche conflitto, piccoli inciampi sul nostro lungo cammino che, però, alla fine hanno rafforzato il gruppo. Anzi, ritengo che sia stato persino opportuno fare emergere e affrontare queste divergenze. Il conflitto, nella vita come nella drammaturgia, è trasformativo e può essere generatore di relazioni rinnovate. Inoltre, il desiderio di difendere la propria linea mostrava quanto le ragazze e i ragazzi ci tenessero a questo spettacolo.
Quali sono le principali differenze tra la vostra Odissea e quella narrata da Omero? Odisseo torna nella sua Itaca, c’è un parallelismo tra il vissuto di questi giovani e la narrazione omerica. Quali vissuti sono emersi in fase di scrittura rispetto a un tema così cruciale?
Sì, ci sono molti parallelismi. All that’s left to me adatta il testo classico alle storie dei tanti Ulisse che in ogni tempo aspirano a tornare nella propria Itaca o a ritrovare se stessi. Il poema omerico cela l’archetipo di ogni vita umana, stretta tra perdita della vecchia identità e attrazione dell’ignoto. Al contempo, però, ci sono molte differenze, ne cito due tra le più significative. La prima, che a distanza di mesi colpisce perché ha il sapore amaro della preveggenza, l’ha proposta Abraham Saidam: Odisseo, interpretato dallo stesso Abraham, non tornerà mai a Itaca, al contrario, morirà durante il viaggio di ritorno.
Abraham non ha mai saputo spiegare la ragione di questa proposta, forse era solo la ricerca di un effetto melodrammatico, ma non aveva dubbi in proposito e l’intuizione è stata accolta dal gruppo. L’altra differenza è che la storia è raccontata dal punto di vista di Telemaco. Questo sta ad indicare che se esiste una possibile soluzione alla tragedia di questa terra martoriata, non può che arrivare dalle nuove generazioni. Nella nostra Odissea il padre muore e il figlio deve trovare il coraggio per affrontare i Proci (il suo destino) da solo.
Omero nel suo poema giustifica la vendetta di Odisseo come inevitabile conseguenza della protervia e dell’arroganza dei Proci. La vostra soluzione drammaturgica ricalca il modello originale o se ne allontana?
Ci siamo arrovellati a lungo sul finale. Nella nostra versione Telemaco (Nowar Diab) sconfigge Antinoo (Nadim Jad), il capo dei Proci. Impossibile per gli autori non identificarsi nel protagonista, loro coetaneo, il quale riesce nell’impresa di liberare la terra natia dagli invasori. A questo punto, però, si pone un problema morale: Vendicarsi dei nemici o perdonarli cercando una possibile convivenza e riconciliazione.
Ne abbiamo discusso molto, ma le opinioni erano le più disparate ed è stato difficile trovare una sintesi. La soluzione che abbiamo deciso di adottare è un compromesso: Prima che Telemaco sferri il colpo fatale, Penelope (Hadil Wadi) grida al figlio di fermarsi. Sul palco tutti restano immobili, come in un fermo immagine, l’unica che lentamente si incammina verso la platea è la stessa Penelope che rivolgendosi direttamente al pubblico domanda: E ora cosa dobbiamo fare?
All that’s left to me è uno spettacolo multilingue, ogni personaggio parla un diverso idioma. Qual è il significato di questa scelta?
Questo progetto teatrale ha una forte impronta multiculturale e per questo si è deciso di scrivere un copione in più lingue: inglese, arabo, italiano, francese aggiungendo alcune forme espressive tipiche della Palestina come la danza Dabka o il canto tradizionale, allo scopo di inventare una forma polisemica che andasse oltre le parole. In particolare, a ogni personaggio è stata associata una lingua, come se fosse possibile identificare la patria solo nella lingua madre. In fondo la lingua ci appartiene molto più della terra.
Soltanto il protagonista, Telemaco, all’inizio della storia parla inglese, proprio perché rifiuta le sue origini e vorrebbe abbandonare Itaca, per poi tornare all’arabo nel finale, quando si riconcilia con il padre. Questo passaggio di consegne da padre a figlio avviene dopo che Odisseo pronuncia le parole: D’ora in poi sarai qualcun altro !غیرك ،الآن منذ ،أنت tratte da una poesia di Mahmoud Darwish.
A fine dicembre siete arrivati a Gaza. Quali sono state le vostre prime impressioni?
Gaza ha una superficie che equivale circa al doppio di Milano, dove vivono oltre due milioni di persone. Nella città principale, Gaza City, c’erano numerose torri, mall, una lunga infilata di locali sulla spiaggia, e le zone più centrali non sfiguravano rispetto a tante città del Sud Europa, per decoro urbano, parliamo al passato perché, purtroppo, è rimasto ben poco di quanto abbiamo visto.
Nei campi la situazione era molto diversa, qui le persone spesso non avevano neanche le scarpe, gli edifici erano in condizioni precarie e ci vivevano stipate famiglie numerose. Gaza ha un tasso di disoccupazione spaventoso che supera il 50%, c’è grande povertà, eppure tutti ci aprivano le loro case. Impossibile rifiutare un invito per colazione o per pranzo, e ci siamo rimpinzati di hummus, maftul, makluba, knafa e un’infinità di falafel… Non siamo mai stati accolti tanto calorosamente. A Gaza abbiamo trovato tanti amici e in questi frangenti tragici preghiamo ogni giorno per loro.
Ivan, tu insegni recitazione presso la scuola Mohole di Milano, sei abituato a interagire con ragazzi giovani, alla loro prima esperienza. Per realizzare All that’s left to me è stato necessario fare un corso accelerato di teatro, in pochissimo tempo. Come sei riuscito nell’impresa? Hai notato qualche differenza tra i giovani che formi in Italia e quelli di Gaza?
Non è stato semplice, per il tempo molto limitato: neanche dieci giorni di prove in presenza e tra l’altro non a pieno ritmo, dato che le ragazze dovevano fare ritorno a casa prima del tramonto. Inoltre, le prove nel teatro sono avvenute solo il giorno prima del debutto. Quanto alla recitazione devo dire che —come accade di solito in un gruppo di ragazzi senza alcuna esperienza— c’è sempre qualcuno più incline al gioco scenico. Agli altri ho dovuto trasmettere in breve alcuni principi fondamentali della pedagogia attoriale, già dalle sessioni online.
A Gaza, invece, ho lavorato all’allestimento dello spettacolo provando i movimenti sul palcoscenico e dirigendo gli attori nell’interpretazione del loro ruolo. Devo ammettere che il risultato ha superato ogni aspettativa. Il merito va in gran parte all’entusiasmo e alla passione che hanno messo i ragazzi.
I ventenni sono ventenni dappertutto. In qualunque continente siano nati, vivono sognando il proprio futuro. In loro ho visto la stessa luce che vedo nei miei allievi, l’appassionata ricerca di una strada per realizzarsi. Cercano nell’arte recitativa uno strumento per esprimere le proprie istanze più profonde e per comunicare il proprio punto di vista. Per i giovani che nascono e crescono a Gaza questo bisogno purtroppo si scontra con la consapevolezza che alla gran parte di loro non è concesso nemmeno il sogno di fuggire da una realtà che li espropria di qualunque prospettiva. Questa è la vera differenza, e non è piccola. Un limite invalicabile che alimenta l’aspirazione a cercare un modo per abbatterlo.
Per interpretare Telemaco avete scelto Noware Diab, una ragazza; allo stesso modo il ruolo di Antinoo, inizialmente era stato proposto a Eman Kamel. Immagino che nel contesto della società gazawa una decisione del genere non sia stata presa alla leggera. A cosa si deve questa vostra scelta e come è stata vissuta nel gruppo?
Abbiamo scelto Nowar Diab per il ruolo di Telemaco, per il semplice motivo che la consideravamo la migliore candidata per quel personaggio. Nowar è una ragazza, è vero, ma ha tanto in comune con il giovane principe di Itaca, almeno per quanto riguarda il Telemaco che abbiamo scritto noi. E lo stesso vale per Eman Kamel, era più grande degli altri interpreti, aveva circa quarant’anni, con alcune esperienze teatrali alle spalle, inoltre, lavorando per l’Institut Français de Gaza, parlava un francese fluente. Noi per Antinoo, l’antagonista, avevamo scelto la lingua di Molière e Eman era perfetta per il ruolo.
Siamo però consapevoli che la società di Gaza è molto conservatrice e tutte le scelte sono state attentamente ponderate, perché non volevamo creare problemi ai nostri attori. Abbiamo deciso di affidare due ruoli maschili a due donne, solo quando ci siamo sincerati di poterlo fare.
Il teatro, si sa, è un lavoro di gruppo, chi altri ha collaborato con voi? A chi vi siete affidati per i costumi, le scenografie e la tecnica?
La squadra era composta da tanti e validi collaboratori, il contributo di tutti è stato essenziale per la realizzazione dello spettacolo. Oltre a Giulia Borghi e Stefania Buraschi, che abbiamo già citato, ha partecipato alla revisione e traduzione del testo, in particolare di Darwish, il poeta italo-siriano Tareq Aljabr. Margherita Giogà, giovane attrice, ci ha aiutato a montare le scene coreografate e ha anche preso parte allo spettacolo con un piccolo ruolo, unica straniera in un cast di soli palestinesi.
I costumi sono stati confezionati in loco dalla sarta Soad Afana e le scenografie e le ombre cinesi sono state realizzate dalle bambine e dai bambini della Salaam School del campo profughi di Jabalia, sotto la supervisione di Nicolò Andreoni ed Eleonora Moro e con la partecipazione dell’artista italiano Infynite (@Infynite) che ha realizzato tre grandi disegni appositamente per lo spettacolo.
Riccardo Marchesi si è occupato della regia audio e i tecnici del teatro Ayyam Al Masrah ci hanno supportato per il disegno e la regia luci. Emilio Caja e Nicolò Andreoni hanno partecipato come comparse. Teresa Trezzi ed Eleonora Moro hanno animato le ombre cinesi. Inoltre, tutte le fasi della realizzazione sono state riprese dalla documentarista Mariella Bussolati.
Avete dovuto montare lo spettacolo in circa dieci giorni e gli interpreti erano quasi tutti alla loro prima esperienza. Immagino ci siano state enormi difficoltà. Potete fare qualche esempio?
Innumerevoli, a partire dalla necessità di dover trovare sempre un nuovo spazio prove. Siamo stati ovunque, in una scuola danza, in un ufficio, nel nostro appartamento. È stato difficile anche trovare un teatro disponibilie a ospitare il nostro spettacolo e se abbiamo trovato la soluzione perfetta, il merito va alla determinazione di Meri Calvelli.
Inoltre, abbiamo già fatto cenno ad alcune regole da rispettare, per esempio evitare che interpreti uomini e donne si toccassero sul palco. Per noi era essenziale salvaguardare i nostri attori e sapevamo che tra il pubblico, con ogni probabilità, ci sarebbe stato un ispettore del governo. Di conseguenza ogni scelta registica è stata valutata non solo per quel che riguarda la resa scenica, ma anche per l’opportunità. E nonostante le nostre accortezze di tanto in tanto ci giungeva voce che non ci sarebbe stato consentito di debuttare, voci che per fortuna si sono dimostrate infondate.
Ci sono stati tantissimi problemi tecnici che non stiamo nemmeno a enumerare. Ma il fondo lo abbiamo toccato con il ritiro, per questioni personali, di Eman Kamel a due giorni dalla prima. Non avevamo più il nostro Antinoo. Non ci siamo persi d’animo e l’abbiamo sostituita con Nadim Jad, che pur non avendo mai recitato era un autentico animale da palcoscenico. C’era un solo problema, non conosceva il francese. In poche ore, con il supporto di Tareq Aljabr, abbiamo tradotto la parte di Antinoo in arabo anche se questo ha compromesso il significato che avevamo dato all’utilizzo di lingue diverse per ogni personaggio. Nadim ha memorizzato il copione in tempo record e si è dimostrato un “cattivo” straordinario!
Avete debuttato il 7 gennaio 2023 al teatro Ayyam Al Masrah. Com’è andata?
Eravamo tutti emozionati, c’era chi piangeva, chi non parlava per la tensione, l’unica sorridente, che non vedeva l’ora di esordire, era Dalal Elswerky, ma lei è un caso a parte, è nata per lo spettacolo. La maggior parte degli attori era alla prima esperienza. Immaginate un teatro da cinquecento posti, tutto esaurito, anzi molti, che non avevano trovato posto, stavano in piedi, e tanti altri non erano potuti entrare. In più c’era la stampa, tre o quattro emittenti televisive che riprendevano lo spettacolo in diretta, compresa Al Jazeera.
Lasciando da parte le più elementari norme di sicurezza, era esaltante vedere quel teatro stracolmo di persone. Certo non è il debutto più semplice per un principiante. La tensione era indescrivibile, anche per noi. Alla fine, tutto è andato alla perfezione, non hanno sbagliato una sola battuta. Lo spettacolo si è concluso con il canto liberatorio di Itaca di Lucio Dalla. Tenendosi per mano gli attori hanno intonato il ritornello per rendere omaggio a noi, i loro nuovi amici italiani. L’applauso scrosciante del pubblico, la gioia e la commozione nei loro occhi ha salutato la fine. È stato tra i momenti più felici delle nostre vite.
Dopo il debutto a Gaza, stavate organizzando la tournée italiana dello spettacolo All that’s left to me, con tappe in Liguria, Toscana e Lombardia. L’arrivo dei ragazzi era previsto il 10 ottobre, pochi giorni dopo l’attacco di Hamas…
La sera del debutto ci siamo trovati tutti al Centro Vik, nel sangue avevamo ancora l’adrenalina del debutto, ma aleggiava il pensiero che l’indomani ci saremmo dovuti salutare. È stata quasi una terapia di gruppo, perché ognuno di noi ha fatto un discorso rivolgendosi a tutta la compagnia. Tanti pianti, tanta commozione, la sensazione di aver creato legami profondi. Alla fine non siamo più riusciti a rispettare la rigida etiquette di Gaza e ci siamo lasciati andare agli abbracci.
In quell’occasione avevamo già in mente di dire ai ragazzi che stavamo organizzando una tournée italiana, ma per non generare false aspettative abbiamo preferito tacere. Molti di loro non sono mai usciti dalla striscia, ottenere i visti è estremamente difficile e dispendioso e volevamo assicurarci che fosse possibile. Trascorsi altri dieci giorni in Cisgiordania in cui ho cercato di prendere contatti con teatri palestinesi come il Freedom Theater, siamo tornati a Milano e ci siamo messi subito al lavoro per raccogliere il budget necessario al finanziamento del tour.
Alla fine, grazie a raccolte fondi, eventi, cene benefit, siamo riusciti a raggranellare la cifra necessaria. Abbiamo comunicato alla compagnia di questa possibilità, erano tutti entusiasti, era la realizzazione di un grande sogno. Poi il 7 ottobre, a pochi giorni dalla loro partenza, con operazione alluvione Al-Aqsa di Hamas, tutto ha preso una piega imprevista. Era evidente che non sarebbero più potuti partire.
Il 15 ottobre, tra le innumerevoli tragedie della guerra, se n’è verificata una che vi ha toccato direttamente: la morte di Abraham Saidam, l’attore che interpretava Odisseo in All that’s left to me.
Il 15 ottobre era il giorno in cui erano previste le prime prove a Milano, ed è il giorno in cui è arrivata questa terribile notizia. Mohammed Younis, uno degli interpreti di All that’s left to me, ci ha inviato un SMS comunicandoci la morte di Abraham.
È indescrivibile il dolore che tuttora proviamo, ci manca davvero tanto. Vorremmo dedicare due parole ad Abraham, il nostro Odisseo. Era un ragazzo buono, brillante, un sognatore, un uomo di pace. Nel gruppo era un vero leader, ma senza volontà di prevalere sugli altri. Avrebbe voluto fare il regista. A Gaza però non è facile trovare la propria strada e spesso mi diceva che probabilmente avrebbe raggiunto suo fratello negli Emirati Arabi.
Abraham infatti era nato in Iraq, era tra i pochi palestinesi della Diaspora che era riuscito a tornare, questo gli offriva anche un vantaggio rispetto agli altri, aveva un doppio passaporto e per lui era più semplice lasciare la Striscia. Quando si è costituita la compagnia, però, ha capito che Gaza era casa sua e che a qualunque costo avrebbe realizzato il suo sogno proprio là. Anzi aveva rilanciato e ci aveva detto, qui dovremo fondare il nostro teatro. Purtroppo una bomba ha spazzato via tutte queste speranze e una vita meravigliosa. Alla memoria del nostro caro amico è stato assegnato il premio del presidente della giuria (Gad Lerner) del concorso Internazionale Ivo Chiesa (IV edizione), lo abbiamo ritirato ma speriamo di poterlo consegnare a suo padre, sopravvissuto alle bombe (Qui l’articolo di RAI News).
Pensate di dare un seguito a questo progetto e se sì, in che modo?
Dobbiamo essere onesti, non è facile andare avanti senza Abraham. Ma dobbiamo farlo anche per onorare la sua memoria. Certo, questo non è il momento di pensare al teatro, tutti i fondi raccolti per la tournée li abbiamo devoluti per attività umanitarie nella Striscia, inoltre, insieme ad altre realtà, Progetto REC ha lanciato l’iniziativa Emergenza Gaza, per fornire alla popolazione beni di prima necessità e supporto psicologico, grazie al sostegno di Centro Vik.
Ci teniamo a sottolineare che i membri della compagnia stanno distribuendo pacchi alimentari e medicinali agli sfollati e sono impegnati sul campo per l’organizzazione e la logistica degli aiuti. Sui nostri canali social è possibile vedere i report puntuali di Karam Jad e degli altri nostri amici eroi che mettono a repentaglio la loro vita per cercare di alleviare le sofferenze dei civili palestinesi. Ma speriamo che presto arrivi anche il momento della ricostruzione e si possa pensare non solo alla sopravvivenza, ma anche alla cultura. Perché il nostro sogno è realizzare quel teatro che Abraham Saidam ha potuto solo immaginare.
Servizio di in Onda su Abraham Saidam (29/10/2023)