Giulia Roncucci / Arti figurative / Arti Visive / Interviste / Oggi incontriamo Giulia Roncucci (Milano, 1982), artista la cui ricerca spazia dalla fotografia alla videoarte e alle installazioni multimediali. Una costante della sua pratica è l’utilizzo delle nuove tecnologie, come nel caso dell’installazione in realtà aumentata per la mostra diffusa La visione di Leonardo (2022), promossa dal Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano. Ciò che permea il suo profilo artistico è una ricerca di matrice esistenziale sul tempo e sulla condizione umana, che spesso trova compimento in opere immersive dove lo spettatore-protagonista, attraverso l’esperienza multisensoriale elabora il proprio vissuto, in un procedimento che possiamo definire trasformativo o, addirittura, alchemico.
Hai terminato i tuoi studi a Brera nel 2008, sapresti delineare l’evoluzione della tua ricerca artistica nel corso di questi sedici anni di carriera? Ci sono delle costanti? Hai intrapreso delle strade impreviste? Se, e in che modo, è cambiato il tuo stile e il tuo gusto?
In un percorso di ricerca ogni strada imboccata è imprevista, perché la sperimentazione ti pone di fronte a strade non tracciate in precedenza. Ogni strada è appunto un’intuizione e un esperimento, non sai esattamente dove ti porterà. Però ci sono alcuni episodi che hanno orientato il mio percorso su strade che mai avrei immaginato. Ho iniziato con una ricerca di tipo esistenziale fatta attraverso un’indagine intimista sulle zone più oscure della psiche e sulle forme contraddittorie di un’identità in divenire. Una costante dei miei lavori è la riflessione sulla memoria, sul tempo, sul passato che si proietta nel futuro, ma anche sulla fotografia e sulle tecnologie digitali, sulle implicazioni e trasformazioni sociali e individuali che queste determinano.
Per me le immagini devono affiorare dal buio, inteso come zona nascosta, oscura dello spirito. Il buio è anche il passato di cui ci siamo dimenticati, la nostra natura, le nostre origini, tutto il materiale rimosso. Ma il buio è anche, a livello archetipico, quella dimensione che precede la luce della creazione. Nell’ultimo periodo però le atmosfere notturne e misteriche dei primi anni sono diventate più giocose e rievocano una magia più crepuscolare.
Quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente influenzata? E quali sono stati gli incontri che hanno segnato il tuo cammino?
Io arrivo dalla pittura e disegno da sempre, quindi penso che tutte le immagini e le storie che mi hanno accompagnato dall’infanzia mi abbiano profondamente influenzato. Dagli studi di Leonardo ai disegni e alle opere di Rembrandt, Grünewald, Caravaggio, Bacon. Però parlando di influenze più dirette sul mio lavoro posso citare sicuramente Christian Boltansky, Peter Greenway, Bill Viola, Studio Azzurro, Giulio Paolini, Francesca Woodman.
Ci sono stati incontri già dal periodo della scuola che hanno segnato il mio cammino. I miei maestri sono stati gli artisti docenti che ho incontrato nella scuola pubblica e che sono diventati per me, che ho una famiglia un po’ recisa, delle vere e proprie guide. Persone straordinarie, una categoria di professionisti fuoriclasse che oggi non possono neanche pagarsi un affitto in una città come Milano, un fallimento sociale davvero drammatico di cui non si ha coscienza. Gioia Aloisi alla Scuola Media, poi Tullio Brunone che mi ha traghettato dal Liceo Artistico all’Accademia dove ho incontrato altri maestri speciali come Antonio Cioffi, Paolo Rosa, Giulio Calegari, Antonio Caronia, Francesca Della Monica, Roberto Castello.
Poi ci sono stati dei compagni di viaggio misteriosi, degli amici, a volte angeli, a volte fantasmi, che mi sono stati vicini nel lavoro, in alcuni periodi o in momenti importanti, come la mia prima mostra personale nel 2014. Infine, non posso non citare il mio maestro-filosofo Roberto Bordiga.
C’è un libro o un’opera, in particolare, che ti ha trasformata?
Tutto ciò che facciamo, leggiamo e vediamo ha il potere di trasformarci, per questo cerco di fare molta attenzione a ciò che scelgo di guardare o di leggere. Sicuramente la Biennale di Venezia con la mostra d’arte intitolata dAPERTutto che ho visto nel 1999, curata da Harald Szeemann, mi ha segnata profondamente. Negli anni precedenti i curatori erano stati sempre italiani ed è stata una scelta opportuna quella di aprirsi a una prospettiva più internazionale. Il primissimo libro che mi ha colpito era di Norberto Bobbio, avevo tredici-quattordici anni e sempre nello stesso periodo, Dei delitti e delle pene di Beccaria. All’inizio del mio percorso di ricerca, mi ricordo di essere stata tramortita dalla lettura di Sartre e Heidegger, i loro libri avevano aperto uno squarcio su una dimensione completamente nuova. Ma anche Sullo spirituale nell’Arte di Kandinsky e L’occhio e lo spirito di Marleau-Ponty e Gaston Bachelard.
Un regista che non posso non nominare è Werner Herzog, il film Dove sognano le formiche verdi, in particolare. In linea di massima, ho sempre trovato più avvincenti i saggi dei romanzi, ma Joyce è tra gli autori che mi hanno stravolto. E ancora mi ha trasformata Marshal McLuhan come anche Levinas, penso che il suo animo sia più grande di quello di otto miliardi di uomini messi insieme, ahahah!
Pur adoperando strumenti tecnologici per creare la tua arte, il tuo immaginario sembra legato a quello di un mondo primordiale, sacro, mistico. In Dilated Pupil (2009), per esempio, metti in scena un vero e proprio rituale e, in generale, raffiguri mondi remoti, in netto contrasto con il mondo attuale, regolato dal materialismo, dallo scientismo e dalle granitiche certezze degli algoritmi. Qual è il tuo rapporto con la spiritualità? E come vedi il rapporto tra arte e spiritualità?
Sento di avere un legame profondo con le culture indigene, come quella degli aborigeni australiani, ad esempio, o dei boscimani del Botswana (che ho potuto incontrare miracolosamente in Accademia), ma anche con le culture del paleolitico e con il loro sguardo animistico sul mondo, con la loro capacità di vivere nel tempo del sogno e di mettersi in contatto con gli antenati.
La mia è una ricerca su una sacralità forse perduta. L’uomo non è solo un insieme di impulsi elettrici, né tantomeno una specie di macchina e considero la sacralità una delle sue dignità. Rappresenta, per l’umano, la possibilità di uscire da sé e proiettarsi sopra di sé, immedesimarsi negli altri, entrare in contatto con chi amiamo ed è lontano. La spiritualità è la vera libertà dell’uomo. L’arte è forse l’ultima —e la prima forma possibile— di spiritualità laica. La tecnologia in fondo è magia. E la luce con la quale lavoro è una materia spirituale.
In molte tue opere sono presenti figure femminili teriomorfe, per esempio la donna con testa di giovenca in II Sacrificio #01 (2014) o i reperti contenuti in The cool side museum (2015-2021). È evidente il rimando alle divinità del mondo antico. Dai un particolare significato alla relazione simbolica fra donna e animale? E più in generale come ti rapporti al tema del femminile?
Penso che il femminile sia quella parte di ogni essere umano in grado di mettersi in contatto profondo con la natura e con gli altri esseri viventi diversi da noi. Una parte sensibile e recettiva, che è anche una dimensione poetica. La perdita di dignità che la società ha imposto alla donna e all’animale mettendoli in una condizione di drammatica oggettivazione può trovare un rimedio nel riconoscimento della loro sacralità in un passaggio pindarico da macchine-oggetti a scintille divine. Il raccordo, in questo caso, è rappresentato da una visione che si ricollega alle religioni antiche come quella egizia, religione immanente, dimensione lirica per la quale il mondo è permeato dal divino e gli animali ne sono una manifestazione.
La condizione di sofferenza degli animali è lo specchio della nostra condizione di consumatori compulsivi, esiste quindi un legame invisibile fra il torturato (l’animale) e il torturatore (l’essere umano) che si rivela essere il torturato stesso. Perché se la donna e l’animale perdono dignità la perde inevitabilmente anche la componente maschile, che fa di tutto per sfuggire a sé stessa con qualunque stratagemma. La dignità maschile deve allontanarsi dal patriarcato, ovvero dal dominio dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna e sugli animali. Riflettere sullo strapotere del quale si è resa artefice e ritrovare un equilibrio nuovo, una nuova forza più complessa, una delicatezza e un ascolto più profondo, un principio di realtà perduto.
Parte della tua produzione artistica è digitale, quindi immateriale. Per esempio hai collaborato con Bepart (@bepart_movement) per realizzare installazioni “physical” in realtà aumentata e geolocalizzate che possono essere guardate solo attraverso dispositivi come smartphone o visori. L’arte digitale fa pensare alla caducità, le opere sono composte da interminabili sequenze di 1 e 0, intangibili e precarie. Basta il guasto di un hard disk per compromettere il lavoro di una vita. Non è impresa semplice conservare un’opera digitale e, dopo il rovinoso crypto crash degli NFT, occorre trovare nuove strade per raggiungere i collezionisti. Cosa ti ha spinto a scegliere questo mezzo espressivo? Quali ne sono, a tuo parere, i limiti e quali le potenzialità?
È interessante pensare che le opere “physical” siano invisibili e segrete, cioè esistano ma non si vedono nel luogo in cui sono collocate se non attraverso un particolare filtro (lo smartphone o il visore). Chi potrebbe immaginare che in Piazza Duomo c’è una scultura animata in tridimensione? Queste opere sono esperienze effimere, prettamente mentali e visive ma che coinvolgono direttamente il corpo perché abbiamo la possibilità di muoverci realmente attraverso l’opera, anche se questa è virtuale. In questo senso il lavoro occupa uno spazio solo nel nostro immaginario e nella nostra memoria.
La potenzialità di queste opere consiste nel realizzare esperienze impossibili e non concepibili nella realtà. Il limite di questa modalità artistica è rimanere nel “come se” fosse reale, nella superficialità dell’effetto, nell’essere didascalici e nel cercare lo stupore del pubblico anziché indagare il senso del proprio lavoro. La tentazione di lasciarsi guidare dalla macchina (anche nelle scelte estetiche) è molto forte. Penso sia necessario entrare in conflitto con la macchina e piegarla alla nostra natura più profonda, più vera. Le tendenze distruggono l’opera perché la sovraccaricano di contenuti, svuotandola, al contempo, della sua originaria aura e del suo mistero.
Conservare opere digitali effettivamente è complicato. Ti accompagna un senso di precarietà del tuo lavoro che da una parte ti libera dal peso delle cose, ti consente di lavorare in spazi molto piccoli e senza budget; dall’altra genera frustrazione perché sembra di non aver prodotto nulla, come se i lavori esistessero sempre solo in potenza.
I social sono ormai un fattore imprescindibile per molti artisti, la loro affermazione, la loro attendibilità è strettamente connessa al numero di follower su Instagram o su TikTok. Per certi versi il sistema si è democratizzato, consentendo a chiunque di autopromuoversi senza intermediari. Nella tua opera è frequente una riflessione sulle strategie di marketing, basti pensare a opere come II Disvelamento #02 (2015), II Sacrificio #02 (2018) o #PEPPAFREE (2018-19). Cosa pensi di questo nuovo scenario, è un vantaggio o comporta il rischio di un’omologazione artistica per assecondare un pubblico vasto? E qual è l’uso che fai di questi strumenti?
Non posso usare i social per promuovermi, almeno non completamente e non in questo momento, forse perché una parte di me è ancora in fuga da questo nuovo mondo. In ogni caso credo che dovremmo sostituire la promozione con una comunicazione libera da intenti autoreferenziali. Ciò da cui dovremmo emanciparci è il plauso del pubblico. La ricerca è un percorso che non contempla un compiacimento dello spettatore, questo lo fa l’intrattenimento. Viviamo in un’epoca in cui l’arte è stata quasi completamente assorbita dalla superficialità dell’entertainment, dello show, dell’industria.
Ho sfruttato le potenzialità dei social e dello sharing non per promuovere la mia arte, bensì per veicolare un’emancipazione dalle dinamiche del marketing. #Peppafree, per farti un esempio, è un progetto, tuttora aperto, che si fonda sulle strategie di vendita ai consumatori. L’obiettivo è quello di sfruttare queste tecniche per liberare gli animali dagli allevamenti intensivi e, al contempo, per liberare noi stessi (siamo tutti Peppa) dal giogo del desiderio compulsivo e della sovrapproduzione. La prima parte del lavoro, che si è conclusa, riguardava la storia di una gallina liberata. Adesso dovrei affrontare la seconda stagione, quella del maiale (l’originale Peppa).
Gli sviluppi tecnologici degli ultimi anni, mi riferisco in particolare all’avvento dell’Intelligenza Artificiale, sembrano prefigurare una nuova rivoluzione copernicana. Sono numerosi gli artisti che in tutto il mondo si stanno confrontando con questi nuovi oracoli digitali, il primo esempio che viene in mente è Ai vs AI di Ai Weiwei, ma anche in Italia gli esempi sono innumerevoli, il caso più recente l’installazione a cura di Giuliana Cunéaz nella Casa degli Artisti di Milano. Nei tuoi lavori la tecnologia, pur invisibile e discreta, è sempre parte integrante. Cosa pensi della IA?
Ho sempre avuto nei confronti della tecnologia un rapporto mistico/oracolare ma l’intelligenza artificiale è, ridotta alla sua essenza, solo un calcolatore. È il potenziamento di una delle nostre facoltà, ovvero quella di calcolo. La differenza fra la macchina e noi è che noi non siamo solo dei calcolatori, anzi lo siamo in piccolissima parte. Nel nostro mondo iper accelerato solamente una macchina può essere in grado di gestire i miliardi di dati, generati di continuo, per trasformarli in informazioni. Solo un potentissimo calcolatore è in grado di tenere in piedi questo sistema, così com’è pensato.
L’intelligenza dell’IA è il nostro specchio. Lo stupore verso la sua intelligenza deve corrispondere allo stupore verso la nostra intelligenza creativa. Non solo abbiamo programmato l’IA ma siamo stati in grado di renderla simile a noi. La sua capacità di produrre poesie o immagini è frutto delle potenzialità umane, peraltro, imitate con risultati modesti. Il suo potere sta nell’essere anche un valido strumento di falsificazione della realtà e di produzione audiovisiva che permette di realizzare lavori molto complessi in totale autonomia.
Ed è una minaccia o una risorsa?
La falsificazione della realtà è anche un modo per svelare che quanto si trova dentro lo schermo è una distorsione del reale e che l’immaginario nel quale viviamo potrebbe essere completamente fake. Dopotutto, le paranoie dei negazionisti sono l’espressione, inconscia e preveggente, di questa nuova realtà. Se vogliamo cercare un po’ di verità, dobbiamo allacciare relazioni concrete di pensiero, di comunicazione dal vivo con gli altri. In questo contesto, credo che acquisiranno molto valore le produzioni manuali come la grafia, la scrittura a china, per esempio.
In generale, tutto ciò che è necessariamente autentico. L’IA, specie se utilizzata da governi autoritari e non democratici, può diventare uno strumento di controllo sociale molto pericoloso con la sua capacità di monitorare e anticipare le scelte e i desideri degli utenti. È concreto il rischio di un “autoritarismo digitale” perpetrato attraverso una sorveglianza di massa. Per creare degli anticorpi contro questo pericolo (per quanto riguarda l’Occidente, un potere saldamente nelle mani delle grandi corporation come Google, Apple, Amazon) non possiamo che puntare tutto sulla Scuola.
Hai in progetto di farne uso?
Di recente ho fatto alcuni esperimenti con Midjourney per un’animazione in AR (Realtà Aumentata) da integrare a un’opera murale di Vera Bugatti (@verabugatti). Avevo l’esigenza di realizzare degli elementi pittorici con il suo stile e ho provato a farmi aiutare da questo strumento. Non è stato un processo immediato ma alla fine si è rivelato un discreto collaboratore. Discreto perché alcune cose proprio non è riuscito a capirle. Userò ancora l’Intelligenza Artificiale per riesumare alcuni progetti, in cantiere da molto tempo, che non era possibile realizzare senza questa tecnologia.
La tua opera a cui sei più legata?
Non è facile rispondere, forse Dilated Pupil, perché la sua genesi ha una forte componente affettiva. Molti anni fa, mentre rovistavo nella mia cantina, ho trovato un baule con le fotografie dei miei vicini di casa, scomparsi qualche anno prima. Anche loro erano pittori e mi avevano lasciato in eredità le loro cose. Da quel giorno ho iniziato a lavorare su quelle immagini, cercando di ricostruire i racconti della loro storia e delle altre storie possibili, ipotetici intrecci fra la mia storia e la loro, mettendo in relazione il loro immaginario con quello contemporaneo. Alla prima esposizione di questa opera, al Premio San Fedele (Galleria San Fedele 2010) avevo immaginato un’istallazione interattiva dove era presente l’elemento dell’acqua. Abbiamo dovuto oscurare un piccolo spazio per mettere in piedi un laboratorio alchemico.
Devo riconoscere che sono molto soddisfatta del risultato. Ma l’opera che negli anni è diventata una vera e propria ossessione è The Cool Side Museum, un finto Museo ispirato alla caduta del muro di Berlino e alle due Germanie, dove museificare il reale per contrapporlo a una realtà utopica. Tra i lavori più recenti, #Peppafree, e, ovviamente, tutti quelli che aspettano ancora di uscire definitivamente dallo studio.
Gli artisti che ritieni più interessanti nel panorama dell’arte contemporanea italiana? E i più sopravvalutati?
Abbiamo artisti contemporanei immensi, alcuni già storicizzati come Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Paolo Rosa, Alberto Garutti e poi Tullio Brunone. Per quanto riguarda le generazioni più giovani, tralasciando poche eccezioni entrate nel mercato, spesso a discapito della loro ricerca come nel caso di Marcello Maloberti (@martellate_project_), vivono una condizione di grande difficoltà. Mancano spazi condivisi finanziati dai comuni, spazi liberi per giovani dove fare cultura che non siano associazioni elitarie e chiuse o di impostazione borghese. È scomparsa la scena “underground”, anche se il sottobosco esiste, ma nessuno riesce a intercettarlo. Molti di questi giovani artisti sono anche insegnanti, anch’io insegno. In una città come Milano fare due mestieri di questo tipo è un’impresa davvero eroica.
A cosa stai lavorando?
Ho realizzato una serie di “macchine” per la visione, e ho ripreso in mano un lavoro pensato come installazione e lo sto trasformando in un video e in una serie fotografica, si intitola “Piccola cosmogonia in camera oscura”. Ho molti progetti in mente, uno dedicato al mio prozio che è stato mandato a vent’anni a fare la campagna di Russia e un altro molto importante top secret! Sto concludendo uno scritto che sta assorbendo tutto il mio tempo, quando sarà pronto (fra poco) e avrà (forse) preso il largo, potrò riprendere a pensare al resto…
A seguire il video della personale di Giulia Roncucci alla Fabbrica Borroni di Bollate a cura di Annalisa Bergo (2014).