Gianluca Arienti / Artista / Intervista / L’artista che usa il torchio come una moviola cinematografica

Gianluca Arienti / Arti figurative / Arti Visive / Interviste / Gianluca Arienti è un artista poliedrico che mescola tecniche tradizionali di stampa, processi fotografici analogici e in alcuni casi usa macchinari a controllo numerico per produrre stampe che sembrano dipinti. Opere modulari, di medio e grande formato, che l’artista definisce multipli di multipli. La sua arte scaturisce da un processo alchemico. Nel suo studio-laboratorio, infatti, Arienti si lascia guidare dalla materia e la trasforma, sforzandosi di rendere visivo il movimento e di assecondare il caso, recuperando i difetti e le interferenze. Nel 2023 è stato selezionato per partecipare al Latgale Graphics Symposium promosso dal Mark Rothko Art Center.

Dopo essersi diplomato all’Accademia di Brera nel 2004, Arienti segue quella che è da sempre la sua grande passione: il cinema. Inizia a lavorare per numerose produzioni cinematografiche e televisive e a dirigere i primi film. Dal 2010 riprende anche il suo percorso pittorico e tra le grandi tele informali, esposte a Milano, Firenze e Ibiza, i suoi progetti filmici e la carriera di producer, la sua vita sembra aver trovato un perfetto equilibrio. Purtroppo, (o per fortuna?) non destinato a durare a lungo. Il 2016 è un turning point per l’artista. Un grave incidente lo costringe a una lunga degenza, deve abbandonare la sua professione e prendersi una pausa dalla pittura. Proprio in questo frangente di crisi, Arienti scopre l’incisione, una tecnica che gli consentirà di combinare tutte le sue passioni: il cinema, la fotografia, la pittura.

Incontro Gianluca Arienti nel suo studio a Milano, un grande e luminoso open space presso la stamperia d’arte, l’atelier A14 (@A14), non lontano dal nuovo distretto dell’arte, nato intorno a Fondazione Prada e Fondazione ICA.

   

Gianluca Arienti
Gianluca Arienti / ph. Federica Antonelli @fez_antonelli_ph
Oggi ti occupi principalmente di incisione, ma durante il tuo percorso artistico hai attraversato molte forme d’arte, se non sbaglio, hai esordito con la fotografia.

Esattamente. in Portogallo, tra il 2002 e il 2003, durante il mio Erasmus. Ho seguito un progetto di fotografia analogica, in effetti ai tempi il digitale era appannaggio degli appassionati di gadget tecnologici. Ho trascorso un anno intero in camera oscura. Tutti i soldi che avevo da parte li ho spesi per stampare, carta, materiale fotografico, cose così. A dispetto di questa grande dedizione, la mia professoressa contestava sempre il mio lavoro. È un ricordo traumatico, ma devo essere sincero, di recente ho sfogliato gli album dell’epoca e non condivido le stroncature. Certo, era un modo non ortodosso di scattare, ma c’erano già in nuce le tematiche e le modalità artistiche che ancora oggi sto portando avanti. Anche le mie prime sperimentazioni cinematografiche sono di quel periodo, proprio in Portogallo.

A tal proposito, se non sbaglio quello di fare il regista è stato a lungo il tuo sogno.

Sì, è vero. Infatti, avevo iniziato a lavorare in quel campo. Principalmente nel reparto di produzione e di scenografia. Ho avuto l’opportunità di dirigere alcuni spot e di realizzare alcuni film a basso budget, ma dopo l’incidente, che mi ha costretto a casa per più di un anno, ho perso la maggior parte dei contatti lavorativi e, inoltre, non avevo la forza di proseguire. È un lavoro impegnativo anche fisicamente, sveglia all’alba, mille imprevisti da risolvere in poco tempo. Forse non ci credevo abbastanza, chi lo sa. La passione per il cinema, però, non si è mai esaurita e ancora oggi approfitto di ogni momento libero per guardarmi un film, non disdegno niente, dagli action movie di Hong Kong ai film d’essai.

Film preferito?

Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, un capolavoro di montaggio che ha influenzato tutta la mia produzione artistica. 

Gianluca Arienti – N°50 (2012) / ph. Federica Antonelli @fez_antonelli_ph
Oltre che con il cinema esordisci con la pittura. Non può sfuggire una certa continuità tra quei primi lavori e le stampe di grande formato a cui sei approdato.

Sono d’accordo, perché è cambiato il mezzo, ma non il mio approccio al lavoro. In fondo voglio arrivare a un risultato simile, ma anziché usare tela e pennello uso un torchio. I riferimenti sono gli stessi di quando mi dedicavo alla pittura, l’espressionismo astratto americano degli anni ‘50, Emilio Vedova, che ancora oggi è tra le mie principali fonti di ispirazione insieme a Pierre Soulages e Robert Rauschenberg. Ti ho citato dei pittori informali ma per me la pittura va oltre la classificazione storica e di genere, uno dei pittori che amo di più in assoluto è Tintoretto, anche a questo artista sono debitore.

I miei quadri erano tutti giocati sul mettere e togliere materia. Iniziavo con uno strato di olio o di acrilico che poi scavavo via e dopo aggiungevo qualcos’altro che in parte rimuovevo. E questo procedimento andava avanti più e più volte fino a creare diverse dimensioni. E pur con tecniche di stampa, ancora oggi il traguardo è immutato: stratificare materiali, saturare i colori fino al limite della leggibilità, catturare il movimento. Le mie stampe di grandi dimensioni acquisiscono significato quando le si osserva da vicino.

Quando ci si sofferma sui numerosi segni sovrapposti che le compongono, impossibili da decodificare nella visione d’insieme. Nel 2012 con la mostra Dettagli personali ho cercato di esemplificare questa poetica. L’esposizione che metteva a confronto le mie opere con quelle dell’artista Mattia Correggiari (@mattiacorreggiari), invitava gli spettatori a soffermarsi sui dettagli delle tele, perché anche un solo particolare di opere così complesse e stratificate ha qualcosa da dire. 

Sembra che le tue numerose passioni abbiano trovato una perfetta sintesi nella stampa tradizionale.

È vero. La stampa è il mio mezzo artistico d’elezione perché mi ha permesso di mettere insieme passioni diverse, in particolare nei miei ultimi lavori. Ed è questo il motivo per cui rifiuto l’accademismo che impone certe regole per la stampa. Perché, in fondo, per me è solo un modo nuovo per riprendere un discorso che avevo iniziato con altre modalità espressive. Ci sono approdato dopo quel momento di svolta che è stato il mio incidente del 2016. 

Potremmo dire un evento molto sfortunato che hai saputo convertire in un’occasione di trasformazione. Ma di preciso come sei approdato all’incisione?

Era una tecnica che già ai tempi dell’Accademia mi seduceva. Anche se, terminati gli studi, non mi ci sono più cimentato, ho sempre tenuto a mente le lezioni sull’incisione di Mario Benedetti. Un maestro, tra gli incontri più significativi della mia vita di artista. Ma alla stampa sono approdato solo molti anni più tardi. Mi stavo lentamente riprendendo, quando per caso vengo a sapere che proprio sotto casa mia c’era una stamperia d’arte, l’atelier A14.

A pensarci adesso, sembra un segno del destino. Ricordo che ero ancora molto debilitato fisicamente, in piena fase di recupero, eppure ho trovato l’energia per fare i miei primi esperimenti, sotto l’attenta supervisione di Daniela Lorenzi che ha fondato e tuttora dirige A14. Quello con Daniela è stato uno di quegli incontri che segna la vita. Con lei ho iniziato un vero e proprio apprendistato. Mi ha trasmesso la sua grande conoscenza e mi ha aiutato a trovare il mio modo personale di approcciarmi alla stampa.

È stato un processo lungo e faticoso, specie dopo un anno di riposo assoluto, ma anche di grandi soddisfazioni tanto che ho deciso di lasciare lo studio collettivo Omuamua (@omuamua_), dove pure mi trovavo molto bene, per trasferirmi in stamperia. Era logico, visto che ci trascorrevo intere giornate. Nei primi lavori, con la tecnica dell’acquaforte, ho cercato di riprendere i temi e le composizioni che avevo già esplorato nella mia pittura: rappresentazione del movimento, gesti repentini e decisi, forme astratte…  

In pratica un lavoro di trasposizione dalla tua pittura alla dimensione calcografica. 

Possiamo dire così.

La tecnica che forse caratterizza di più il tuo lavoro è quella che tu definisci multiplo di multipli. Correggimi se sbaglio, ma in sostanza realizzi grandi opere modulari, composte da più fogli. Ogni singolo foglio presenta una stratificazione di segni che sono il risultato di numerose ristampe con la stessa lastra di rame, di volta in volta centrata diversamente. 

A grandi linee è qualcosa del genere.

Queste elaborate composizioni, dove uno stesso motivo è soggetto a costanti variazioni nello spazio, creano forte dinamismo e movimento. Quando hai elaborato questa tecnica?

L’ho perfezionata con il tempo, ma l’ho adottata sin dalle prime stampe. Io cerco sempre di non essere troppo ortodosso nel mio approccio alle diverse tecniche artistiche, anche se questo può indispettire qualcuno, per esempio la mia docente di fotografia in Portogallo. Ho bisogno di sperimentare, non posso farci niente. Sono risultati empirici che ottengo sul campo, direi più con l’istinto che con il ragionamento, più di pancia che di testa. Mi lascio guidare dalle mie sensazioni e accolgo gli errori e gli imprevisti di buon grado. Anzi, ti dico di più, gli imprevisti sono parte integrante della mia pratica e non cerco mai di correggerli, semmai li assecondo.

Durante una delle mie sperimentazioni, mi sono accorto che stampando le stesse informazioni più volte sul foglio ottenevo un risultato meno grafico e più pittorico, perché la sovrapposizione di strati di inchiostro sfuma e confonde i profili netti. Un risultato, tra le altre cose, in linea con i miei precedenti dipinti. Per certi versi, ero riuscito a trasformare la lastra in un pennello pieno di colore che attraversa più volte la tela.

Hai affermato che il caso prende possesso della tua opera e ti suggerisce direzioni che non avevi vagliato, cosa intendi dire?

Quando lavoro a una nuova composizione, nella mia testa si forma un’idea molto chiara del risultato che voglio raggiungere. Eppure, durante le numerose fasi del processo che ti ho descritto, l’immagine prende la sua direzione autonomamente e il mio lavoro consiste nell’assecondare e interpretare questa nuova visione. Durante la stampa possono capitare mille imprevisti, magari il colore ha una tonalità differente, più calda o più fredda, oppure, un caso frequente è il livello di umidità della carta che incide molto sull’assorbimento dei colori e quindi sul risultato di stampa.

Mentre stampo sono sempre molto presente e ricettivo su tutti i possibili cambiamenti che mi vengono suggeriti dal caso. Per esempio amo gli errori involontari o gli incidenti che mi costringono a rimettere in discussione il mio lavoro. Non voglio farmi ingabbiare da un’idea precostituita. Gli errori, gli imprevisti, le sporcature chiedono di entrare nei miei lavori, chiedono di essere attori nel teatro della mia immagine e io non vi oppongo resistenza. Evito, per quanto possibile, un approccio accademico, non voglio essere frainteso, non faccio nemmeno lavori del tutto punk, le mie stampe sono preparate con cura e con una competenza tecnica frutto di studio e di impegno. Non provoco di proposito le sporcature, semplicemente le accetto, per consentire al mio lavoro di uscire dai confini della mia individualità.

Gianluca Arienti in studio
Gianluca Arienti in studio / ph. Federica Antonelli @fez_antonelli_ph
Puoi dirmi qualcosa di più sul tuo processo tecnico di stampa 

Prediligo lastre di rame, ma uso il procedimento classico, quello che procede invariato dall’invenzione di Gutenberg. Mi discosto da questa tecnica centenaria solo perché, di proposito, evito di centrare perfettamente la lastra e per la mia modalità di lavoro con i multipli. Riempire completamente di colore il foglio, applicando più volte la lastra, genera un’immagine nuova che non è più quella originale della matrice, e, se ci pensi, questo è un vero paradosso per la stampa.

In sostanza, io non replico una stessa immagine, ma creo una nuova immagine con il torchio. Inoltre, l’estrema saturazione dei miei lavori, stravolge i colori originali. E, come su Photoshop, quando alzi al massimo il livello di saturazione, oltre un certo livello, l’immagine diventa del tutto nera. La differenza è che nella stampa, riesci a mantenere dell’informazione, se osservi con attenzione hai la lettura di tutti i segni precedenti. Il risultato è che in quelle sezioni molto scure delle mie immagini, se ci si dedica sufficiente attenzione, si possono scorgere interi mondi. E questo era un effetto che cercavo anche nei miei quadri.

Puoi farmi un esempio?

Ho realizzato alcune stampe nere molto grandi, À bout de souffle (2018) e Nera è la notte (2018), sono multipli in cui la stessa lastra è stata adoperata anche dodici volte. A uno sguardo superficiale sembra una stesura uniforme, ma basta avvicinarsi per rendersi conto delle diverse vibrazioni, della sovrapposizione di toni di nero. E queste sfumature sono possibili grazie alla grande duttilità che offrono gli inchiostri, bastano minime variazioni di dosaggio per ottenere colori simili eppure distinti.

L’aggiunta di una punta di rosso o di blu, ti fanno cambiare la tonalità e la temperatura del colore con una sensibilità che il digitale si sogna. Questa è la ragione per cui adopero così tanto la monocromia, perché all’interno dello stesso colore ci sono già infinite possibilità. Infine, quando la stampa è ultimata, applico sempre un fondino con la trasparenza, un inchiostro speciale che rende i colori più brillanti, o forse, sarebbe meglio dire, dà ai colori più carattere. In genere a questa trasparenza io aggiungo del pigmento, per esempio il rosa, così la stampa acquista una leggera, quasi impercettibile, velatura.  

Con la serie Frame rendi omaggio ad alcuni classici della cinematografia e, più in generale, al tuo grande amore per la settima arte. Ma tra le opere che la compongono è soprattutto Deserto Rosso (2018) quella dove più risalta il senso di movimento. Si ha davvero l’impressione di guardare una sequenza cinematografica impressa in una pellicola. Si può considerare un punto di svolta nella tua produzione che ti ha portato nuovamente alla macchina fotografica? 

Sì, realizzando Deserto Rosso ho avuto la netta impressione che la composizione di multipli astratti fosse in realtà costituita da fotogrammi di una pellicola. Da questa osservazione, nasce il desiderio di tornare alla fotografia. Naturalmente, per come la intendo io. Nei miei scatti i soggetti non sono mai ben definiti, sono evanescenti, possono sembrare quasi degli elementi grafici, spesso scomposti in particolari per essere decostruiti e resi irriconoscibili. Amo fotografare le nuvole, le foglie degli alberi, il vento, la pioggia, per dirla in breve, amo catturare la materia in movimento.

Ho deciso di stampare le mie foto con una rivisitazione della tecnica di stampa Offset. In sostanza, dopo aver digitalizzato l’immagine e realizzato il lamierino, anziché usare la macchina Offset, adopero il torchio-calcografico con lo stesso procedimento della litografia. Sempre con la consueta modalità dei multipli di cui abbiamo già parlato a lungo. Il risultato è che la mia foto si perde del tutto, rimangono solo delle reminiscenze, e anche i singoli fogli si perdono nella composizione finale di insieme. Ogni porzione dell’opera dialoga con le altre e crea relazione di armonia o di contrasto a seconda dell’effetto desiderato.

E anche in questo procedimento io vedo un rimando al cinema, la cui straordinarietà, consiste nell’assemblare numerosi elementi: una sceneggiatura, una messa in scena, una fase di montaggio… ogni passaggio influisce sul precedente, a volte tradendo l’idea originale. È un’arte sincretica che adopera una moltitudine di linguaggi e scaturisce da un procedimento quasi alchemico, in cui numerosi artisti contribuiscono a un risultato comune. In fondo, con la stampa io cerco di fare cinema. Per me il torchio è una sorta di moviola. I miei lavori non sono altro che découpage, sequenze in movimento. 

Gianluca Arienti – Deserto Rosso (2018) / ph. Federica Antonelli @fez_antonelli_ph
Tra le tue opere, Gianlooking Clouds (2021) è forse quella che meglio incarna il tuo desiderio di catturare il movimento.

Lo penso anch’io e le sono molto legato. Il titolo è la traslitterazione del mio nome combinata con quello di un membro degli Oglala Lakota (anche noti come Teton Sioux), John Looking Clouds. Molto tempo fa ho avuto il privilegio di conoscere questo carismatico capo tribù. Mi è parsa una straordinaria coincidenza, ho sempre avuto una profonda attrazione per le nuvole e i misteriosi disegni che compongono nel cielo, così la poesia del suo nome Lakota, ossia “John che guarda le nuvole”, non poteva che imprimere un segno indelebile nei miei ricordi.

A distanza di molti anni da quell’incontro, mentre attraversavo la via francese del cammino di Santiago, per essere precisi sotto il cielo limpido delle Mesetas, ho deciso di iniziare un progetto sulle nuvole e di catturarne il movimento placido, onorando la memoria di John e tramandando il suo sguardo attraverso la mia pratica artistica. Il progetto Gianlooking Clouds non si limita però all’esposizione, è in continuo divenire e intendo svilupparlo attraverso linguaggi differenti che vanno dalla stampa, alla fotografia e al video.

Gianluca Arienti – Gianlooking Clouds (2021) / ph. Federica Antonelli @fez_antonelli_ph
Gianlooking Clouds è stato presentato nella mostra ADFINIS [dal lat. affinis «confinante», comp. di ad- e fines «confini»] inaugurata dalla galleria di Lorenzo Vatalaro (@artelunga) in collaborazione con la stamperia d’arte A14. Era un ciclo di cinque personali e una collettiva. Oltre a te vi hanno partecipato Pietro Bologna, Ugo Dalla Porta, Leo Pellegatta e Shiro Teramoto.

Esatto. L’intento della mostra era di mettere in relazione artisti con personalità ben distinte, ma accomunati dall’uso della fotografia come mezzo espressivo. Il mio allestimento cercava di dare l’impressione allo spettatore di trovarsi in mezzo alle nuvole. Per questa ragione, ho deciso di adoperare un telaio di supporto che usciva di circa dieci centimetri dalla parete, i fogli erano appesi con delle calamite, per staccarli e dare l’impressione che fluttuassero. Non solo, sempre per sottolineare il movimento, durante la personale, ho cambiato l’ordine dei singoli fogli, creando di volta in volta diverse composizioni. Esattamente quello che accade alle nuvole sospinte dal vento, sono generatrici di forme inedite e in continuo mutamento, pur sembrando statiche. Ho anche giocato con delle sovrapposizioni, così da creare una serie di moduli informi che continuavano a muoversi sulla parete.

Sei tra i due artisti italiani selezionati all’edizione del 2023 del Latgale Graphics Symposium. Vuoi raccontarci questa tua esperienza in Lettonia?

È stato un vero onore rappresentare l’Italia, insieme a Marco Poma, in questo prestigioso evento internazionale di media grafici nella regione di Latgale. Il Simposio è promosso dal Mark Rothko Art Center Museum e lavorare a Daugavpils, la città dove il grande pittore è nato, è stata un’esperienza che difficilmente dimenticherò, sono luoghi di una bellezza struggente. Lì ho trascorso due settimane di intenso lavoro per realizzare Orchid (2023) che raffigura un’onda increspata. Devo ammettere che ho dovuto adattare la mia pratica artistica a materiali diversi, rispetto a quelli a cui sono abituato. In quella località così remota è molto più difficile rifornirsi di tutto il necessario e non puoi che arrangiarti per trovare soluzioni creative ai tanti problemi che ti trovi ad affrontare. E proprio per queste carenze tecniche, per i numerosi imprevisti, il lavoro realizzato a Daugavpils risente più del solito dell’intervento del caso.

Che intendi dire?

Da Milano mi ero portato alcune lastre, un rullo e altri utensili. Gli inchiostri erano molto diversi da quelli che adopero abitualmente e, infatti, ho sperimentato nuove tecniche cromatiche, virando tutto sul seppia. A complicare ulteriormente le cose, il torchio a mia disposizione aveva bisogno di una taratura e di un po’ di manutenzione. Tutti questi problemi hanno comportato che durante gli ultimi passaggi il foglio si strappasse. Ci tengo a precisare che la mia tecnica, che prevede numerosi passaggi di stampa, necessita di attrezzature molto performanti, altrimenti la continua sollecitazione sulla carta, a lungo andare, la danneggia, fino all’irreparabile… Ed è proprio quello che è successo in Lettonia, l’ultimo giorno, prima dell’esposizione. Ci pensi?

L’incidente non mi permetteva più di allestire la mostra come l’avevo immaginata. Ho dovuto ripensare la composizione dei miei multipli, eppure penso ancora adesso che l’imprevisto mi abbia permesso di trovare una soluzione espositiva ancora più interessante. Ho realizzato una grande composizione orizzontale con quattro fogli che danno un senso di avvolgenza, come l’abbraccio del mare. Dopotutto, questa è l’essenza stessa del mio processo creativo, accettare e integrare nella mia opera gli interventi del caso.

Progetti per il futuro?

Mi piacerebbe lavorare su qualcosa di narrativo. Intendiamoci, nella mia arte legata al movimento io vedo già delle storie. Storie semplici. Per esempio, quella di un’onda che si increspa o di una nuvola che solca il cielo. Adesso però voglio affrontare storie con una struttura più, passami il termine, drammaturgica. Sto lavorando con delle fotografie scattate durante il mio soggiorno in Lettonia, in particolare su un lago ghiacciato. In queste foto, sullo sfondo, ci sono uomini e donne con degli ombrelli. La figura umana è del tutto assente nella mia produzione precedente, si tratta di una sperimentazione del tutto nuova. Ma non è una cosa che mi preoccupa, queste distinzioni tra arte figurativa e astratta mi interessano poco a essere sincero. L’arte non ha etichette, non ha vincoli, è pura libertà. L’arte serve a dare forma al nostro immaginario.

Simon Gusman
Simon Gusman
Viaggiatore compulsivo. Per molti anni ha vissuto in Chiapas dove ha conosciuto il Subcomandante Marcos. Al momento vive a Granada.

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