ALOT Teatro / Arti Performative / Teatro / Interviste / Alot Teatro è un collettivo teatrale nato a Milano nell’ottobre del 2022. La compagnia è stata fondata da neo diplomati di MTM – Grock Scuola di Teatro. Ad oggi conta 11 elementi, 9 attrici e 2 attori. Due in particolare sono gli elementi che caratterizzano questo gruppo: il lavoro in autoconduzione (senza un direttore), per cui ogni decisione è presa coralmente e in modo orizzontale; una ricerca sui canti polifonici di tradizione orale, avviata dopo l’incontro con la compagnia internazionale Teatr Zar (@teatrzar), presso il Grotowski Institute di Breslavia.
Non lontano da SLAP (Spazio Lambrate per le Arti Performative), dove la compagnia è in residenza, ho incontrato una rappresentanza del collettivo in un appartamento di un tipico stabile a ringhiera di Milano. Qui il gruppo è solito ritrovarsi per ulteriori singing session. In questa cornice conviviale, mi hanno raccontato il loro modo di fare teatro.
La nascita di ALOT Teatro è legata a doppio filo all’incontro con Teatr ZAR, gruppo internazionale, il cui lavoro in larga misura è ispirato ai canti polifonici georgiani. La stessa parola ZAR è il titolo di un canto funebre eseguito dalle popolazioni della Svanezia. Come ha influito questo incontro con lo sviluppo della vostra ricerca?
Possiamo dire che tutto è partito dall’incontro con Teatr ZAR. La ricerca sulle polifonie di tradizione orale costituisce le fondamenta di questo gruppo fin dalla sua nascita, ormai vent’anni fa. Tre di noi hanno incontrato Teatr ZAR nell’estate del 2022 mentre altri cinque nell’estate del 2023 per lo ZAR Intense workshop. È lì che, tra le varie proposte di training fisico e vocale, abbiamo scoperto la ricerca sulle polifonie di tradizione orale. Ci siamo così trovati a camminare sulla strada che Teatr ZAR aveva tracciato qualche anno prima.
Siamo però più propensi a far coincidere la nascita di ALOT con la nostra prima spedizione: tra fine novembre e inizio dicembre 2022 siamo stati in Sardegna, ad Orosei, per imparare dai cantores del Cuncordu de Orosei. Grazie a quella esperienza abbiamo compreso il nostro desiderio di lavorare insieme, a partire dalla ricerca e dallo studio di questo materiale musicale.
Il lavoro di ALOT Teatro è incentrato sul canto polifonico e l’ascolto. Spesso chi frequenta i cori, si rende conto di quanto il canto in gruppo aiuti a dissolvere l’ego in favore di una visione più altruistica. Ritenete che proprio questo possa essere il segreto che consente a un collettivo così numeroso di lavorare in armonia?
Noi non siamo un coro, siamo un collettivo teatrale. Questo è importante da dire. Siamo un collettivo teatrale che sta facendo ricerca sulle polifonie di tradizione orale per cercare delle porte d’ingresso teatrali attraverso le quali rielaborare questo patrimonio: parliamo quindi di relazione, di ascolto, di incontro. I canti che abbiamo in repertorio sono a quattro parti vocali. Cantare questi canti significa stare e fare insieme, sono un magnete attorno a cui tutti riusciamo a gravitare. Nella pratica polifonica —attraverso la melodia, l’armonia e il ritmo— entriamo in un mondo in cui oltre al sé esistono gli altri. Non possiamo più essere indifferenti, separati o divisi, e così diventiamo qualcosa di simile alle molecole di uno stesso corpo. Per noi la pratica polifonica fa emergere e amplia i significati del vivere collettivo.
Pensiamo che lo studio delle polifonie sia più che mai necessario in questi tempi, in cui prevale lo smarrimento causato dal personalismo individuale e si svilisce il valore della condivisione. Un altro fattore che contribuisce a saldare il gruppo è il viaggio come elemento necessario per la nostra ricerca. Andare in un luogo altro permette di conoscere persone che custodiscono una specifica eredità culturale. Aver fatto questo viaggio insieme significa aver calpestato gli stessi luoghi, aver condiviso la tavola, il vino… Creiamo così dei denominatori comuni per il nostro gruppo. Probabilmente il nostro vero collante è la pratica polifonica nella sua interezza, che si traduce nel condividere un’esperienza di conoscenza.
Sebbene molto numerosi (nove attrici e due attori: A lot, per l’appunto) avete la grande ambizione di impostare ogni fase della vita associativa, dall’organizzazione alla produzione, in modo del tutto orizzontale. Come si svolge il vostro lavoro in autoconduzione? Per esempio come collaborate alle vostre drammaturgie? O alle vostre regie?
Possiamo dire che l’orizzontalità rappresenta per noi un continuo ricominciare a imparare. Stanno emergendo nuove consapevolezze anche grazie a tutti i fraintendimenti che questa parola, orizzontalità, ha generato. Oggi sappiamo quanto sia faticoso prendere decisioni nel nostro gruppo, le stesse non richiederebbero grandi sforzi in un contesto verticale, perché c’è sempre qualcuno a cui si deve rispondere. Nel nostro caso solo all’apparenza manca questa figura, in realtà è a tutto il gruppo che dobbiamo rispondere. Questo ha molto a che fare con il nostro fare teatro, con il nostro lavoro sulla coralità.
Rispetto all’autoconduzione, possiamo dire che nel nostro collettivo ognuno mette al centro i propri talenti per mezzo dei quali affiorano stimoli e intuizioni necessari al nostro processo creativo. Alcuni di noi assumono il ruolo di guida per specifici materiali di lavoro. C’è chi guida la parte fisica, chi la parte musicale. Queste guide si assumono la responsabilità di sollevare il materiale da terra e far sì che possa essere respirato da tutto il gruppo. Stiamo cercando di far scivolare quella chiarezza di intenti raggiunta nell’allenamento e nello studio anche nelle fasi del processo creativo. Ad oggi, con un solo lavoro performativo alle spalle, non possiamo certo dire di aver già trovato risposte esaustive. Non c’è niente di risolto, tutto è vivo, inquieto, problematico, per utilizzare delle parole che ci sono state rimandate da poco.
E come gestite i conflitti?
Stiamo scoprendo giorno dopo giorno come fare. Crediamo sia necessario passare per il conflitto, perché il conflitto è democratico e di conseguenza utile per un gruppo come il nostro. Praticando la polifonia risolviamo le incomprensioni, ci ricordiamo perché stiamo facendo questa cosa insieme. Entriamo in relazione fisico-sonora, ci re-incontriamo su un piano diverso e questo ci consente di non arroccarci su posizioni individualiste che fanno perdere di vista il lavoro.
Il teatro delle origini aveva l’eminente funzione di rito collettivo. I canti e la recitazione in versi costituivano la prassi. Juliusz Osterwa considerava l’arte complementare alla religione. Nella vostra pratica teatrale, qual è il vostro rapporto con la spiritualità e la trascendenza? E, più in generale, come affrontate il tema della religione?
Quello che possiamo dirti è che nel canto a cuncordu il repertorio è prevalentemente religioso, quindi, al momento, il nostro repertorio ha una componente religiosa. Lavorando con questi canti noi cerchiamo di andare oltre il loro confine liturgico. Estraendo questi canti dal loro universo, proviamo a recuperarne la vitalità, l’esperienza fisica che possono regalare ai nostri corpi.
Maneggiamo del materiale musicale tradizionale e lo distilliamo in un’esperienza fisica, lasciando evaporare il significato originale. Ma c’è probabilmente un’impronta che rimane. Della religione sicuramente rimane il suo senso di religare, quindi di radunare e mettere in comune. Per noi ritualità è quello che attraversiamo tutti i giorni nel nostro lavoro: esperienze fisiche e esperienze vocali che ritualizziamo, cioè che attraversiamo continuamente in aula. Quindi cerchiamo di trovare una nostra ritualità, senza andare a citare una ritualità che appartiene ad altri.
A novembre 2022 avete organizzato un viaggio studio a Orosei, in Sardegna, per apprendere i canti polifonici dei cantores del Cuncordu che hanno spesso, ma non sempre una valenza paraliturgica, come siete venuti a conoscenza di questa tradizione e cosa potete raccontarci in proposito?
Martino Corimbi, del Cuncordu de Orosei è la persona che per prima abbiamo sentito e che ha reso possibile questo progetto. Abbiamo avuto il suo recapito dalla compagnia Teatr ZAR, che aveva incontrato lo stesso gruppo di cantores. Fin dalla prima telefonata abbiamo intuito la sua grande generosità. Oltre che da Martino, siamo stati accolti da Toto, Paolo, Franco, Giovanni, Lillu, Redento e Salvo. Abbiamo fatto tre ore di studio al giorno e abbiamo imparato dieci canti del loro repertorio. Abbiamo condiviso con loro aperitivi, pranzi, cene. Ci hanno aperto le loro case, abbiamo incontrato le loro famiglie. A Orosei sono nate delle amicizie rare, per questo siamo tornati in aprile 2023, per ascoltare i canti delle processioni pasquali e in agosto 2023 per imparare altri brani con i nostri maestri. E torneremo presto a trovarli.
Questa spedizione è una esperienza che ci ha cambiati, come individui e come gruppo. Abbiamo preso consapevolezza della necessità del viaggio per portare avanti la nostra ricerca. Per noi è chiaro, non possiamo imparare canti polifonici di tradizione orale ascoltandoli su Spotify o su YouTube. La scoperta deve passare anche dall’immersione nei luoghi dove questi canti nascono, nella cultura in cui sono inseriti, dall’incontro con le persone che li mantengono in vita e che li abitano.
Le esecuzioni del canto a cuncordu sono regolate da precise norme, nelle vostre interpretazioni vi attenete alla tradizione o vi siete concessi delle libertà? La prima innovazione che non può sfuggire è la seguente: il vostro collettivo è composto principalmente da donne, eppure vi confrontate con un genere tradizionalmente legato alle confraternite laicali.
La libertà non può prescindere dalla conoscenza delle regole. La rielaborazione dei canti non può prescindere quindi dallo studio del materiale musicale per come ci è stato insegnato. Quindi ci avviciniamo al materiale per quello che è, e, pian piano, attraversando ripetutamente quel canto, troviamo possibilità di incontro tra il nostro materiale umano e il materiale musicale; ed è a partire da questo incontro che ci spostiamo dalle esecuzioni originali. Per il momento, come hai ben evidenziato, il nostro materiale umano è contraddistinto da una maggioranza femminile, per questa ragione abbiamo adottato tonalità più aderenti al “carattere” del collettivo. Lavoriamo sempre per immagini, cercando quindi delle porte d’ingresso teatrali e non musicali ai canti.
In genere non ci diciamo mai prima cosa vogliamo creare, procediamo con tentativi molto semplici. Per esempio possiamo aprire un canto facendo apparire un bordone, un pavimento di suono, un terreno su cui è possibile muovere dei passi; questi passi possono essere mossi dalla linea vocale che apre il canto, così c’è qualcuno che percorre un sentiero e ci conduce verso una cattedrale di suono, la polifonia a quattro parti vocali. Il nostro processo creativo si fonda su questi continui tentativi di rielaborazione, ambienti, disegni sonori che sperimentiamo di volta in volta. Ma non sempre ci allontaniamo dalla tradizione, a volte facciamo il “giro del mondo” per poi tornare al punto di partenza, quando il brano già proietta un disegno sonoro molto chiaro, quindi per noi è solo necessario attraversarlo per chiarire sempre più quell’immagine.
Il vostro studio dei canti polifonici sardi ha portato alla realizzazione dello spettacolo Cuntempla. Avevo soltanto sete d’amore che ha debuttato nel 2023 alla XXI edizione del Festival deSidera Bergamo. Qui alle canzoni avete intercalato alcuni versi di Alda Merini, tratti dal Poema della croce e da La Terra Santa. Come è nata l’idea di questo spettacolo? E che accoglienza ha avuto?
L’organizzazione del Festival era incuriosita dalla nostra ricerca e ci è stato chiesto di fare una proposta testuale che potesse accompagnare i canti. Dopo una nostra prima ipotesi, ritenuta non coerente con i temi del festival, siamo stati guidati verso un’altra soluzione. Ci è stato consigliato di lavorare sulle poesie di Alda Merini e sul tema mariano. Al festival è andata in scena una performance itinerante collettiva, dove lo spettatore si è fatto nostro compagno. Abbiamo ricevuto riscontri positivi sul lavoro che ci hanno incoraggiato ad approfondire la nostra ricerca e dopo due ulteriori repliche all’aperto, abbiamo scelto uno spazio chiuso, rinunciando all’itineranza caratteristica del lavoro iniziale e scoperchiando nuove domande sul lavoro stesso.
Proprio per questa vostra necessità di apprendere attraverso l’incontro e la conoscenza diretta avete organizzato una seconda spedizione a Bastia in Corsica dall’11 al 17 marzo 2024
Sì, siamo stati accolti da Patrick, Eric, Gerard, Didier e Sebastian, cinque dei sei membri del coro Tempvs Fvgit, che da più di vent’anni porta avanti e condivide con il resto del mondo la tradizione polifonica corsa. Durante la spedizione siamo stati inoltre accompagnati dal nostro fotografo Pasquale Rescigno e da uno studente di musicologia dell’Università Statale di Milano, Mattia Scravaglieri, che scriverà un articolo in cui verranno approfonditi gli aspetti più teorici e storici della tradizione polifonica corsa.
Come abbiamo già affermato, siamo un giovane collettivo indipendente perciò, per rendere possibile questa settimana di ricerca, nei mesi scorsi abbiamo organizzato un crowfunding attraverso il quale abbiamo raccolto risorse sufficienti per coprire gli spostamenti, il vitto e l’alloggio della settimana. Siamo rimasti profondamente colpiti dal supporto ricevuto e desideriamo ringraziare tutti coloro che hanno donato e che ci hanno così permesso di incontrare persone e suoni preziosi per il nostro teatro.
ALOT Teatro ha portato questa pratica anche in una comunità per adolescenti psichiatriche e psichiatrici. Potete raccontarmi qualcosa di questa esperienza? E avete in programma altre attività di questo genere?
Un progetto molto complesso e di responsabilità, dove era necessario sintonizzarsi con un tipo di energia a cui non eravamo abituati. Possiamo dire, però, che c’è stata una risonanza particolare sia per loro che per noi e ci sarebbe piaciuto dare seguito a questa esperienza. Ma per quest’anno abbiamo dovuto rinunciare. Se capitasse l’occasione ci piacerebbe proporre un progetto per il carcere.
ALOT Teatro è la compagnia residente di SLAP (Spazio Lambrate per le Arti Performative – Milano), oltre che per l’allenamento e le prove, adoperate questo spazio per alcuni laboratori. A chi si rivolgono? E che genere di attività proponete?
Fin da subito ci siamo detti: abbiamo un materiale musicale che ci è stato generosamente regalato, non possiamo tenercelo tutto per noi. Da questa esigenza di condivisione sono nati i nostri laboratori. Per avere un doppio canale di condivisione, l’attività laboratoriale appunto, oltre a quella performativa. Nei nostri laboratori facciamo “reagire” il nostro materiale musicale con il materiale umano di chi partecipa e vediamo cosa ne viene fuori, senza avere la presunzione di insegnare niente a nessuno.
Questi laboratori si chiamano “Lo spazio polifonico”, spazio perché sono un luogo di incontro per i nostri corpi e le nostre voci e polifonico perché attraversiamo la pratica della polifonia con un fare insieme sincero e autentico. Nei laboratori lavoriamo sia fisicamente che sui canti tradizionali; muoviamo quindi il nostro corpo e la nostra voce, e per quanto ci riguarda non sono cose distinte. Ai laboratori siamo tutti presenti e proponiamo alcune pratiche fisiche e/o vocali che sono le stesse pratiche adottate per il nostro allenamento, lo studio e la ricerca. Viviamo quindi un’esperienza di condivisione più che di formazione.
Progetti per il futuro di ALOT Teatro?
Entro la fine del 2024 è nostro desiderio realizzare una terza spedizione in Sicilia, per portare avanti la ricerca sui canti polifonici di tradizione orale delle isole del Mediterraneo.
A questo proposito, in queste settimane ci stiamo muovendo per organizzare una residenza artistica nella Stanza della seta di Palazzo Milio a Ficarra, in provincia di Messina.
Coglieremo questa occasione per iniziare a lavorare su un nuovo progetto a partire dal materiale musicale raccolto in Sardegna e in Corsica e a quello che sarà possibile raccogliere dall’incontro con i “lamentatori” di Mussomeli, con cui ci stiamo mettendo in contatto.
In generale, in futuro vorremmo portare il nostro sguardo ancora altrove, sempre più lontano. Ci immaginiamo di andare avanti con la nostra ricerca e far nascere ogni volta dei processi creativi nuovi, spinti da questi viaggi, da questi materiali.