Marina Ballo Charmet / Artista / Intervista / Le immagini del preconscio

Marina Ballo Charmet / Arti figurative / Fotografia / Interviste / Incontro l’artista e psicoterapeuta Marina Ballo Charmet (1952) nel suo studio, in uno stabile signorile a due passi dal castello Sforzesco. In questo ampio e luminoso ambiente, dove è il bianco a farla da padrone, risaltano le grandi stampe fotografiche appese alle pareti. Tra gli scaffali colmi di libri, con lo sguardo scorro a volo le sue pubblicazioni e le monografie sulle sue mostre, affiancate a testi di psicologia e psicanalisi infantile.

Questo accostamento mi fa intuire quanto questi due campi di interesse siano inseparabili per l’artista. Si contaminano e si intersecano vicendevolmente. La fotografia di Marina è intrisa della sua formazione psicoanalitica, allo stesso modo nella sua attività terapeutica, spesso fa capolino il linguaggio fotografico. Si è fatta promotrice, per esempio, del metodo Photolangage di Pierre Babin, Alain Baptiste e Claire Belisle.

In questo assaggio di Primavera, c’è ancora freddo ma la giornata è soleggiata e tersa, trascorriamo alcuni minuti a conversare di fotografia, durante i quali Marina mi fa sfogliare un bel libro della fotografa palestinese Ahlam Shibli. Il tempo di scambiare le ultime battute ed entriamo nel vivo dell’intervista.

     

Marina Ballo Charmet / Rumore di fondo (1996-1999)
Marina Ballo Charmet / Rumore di fondo (1996-1999)
Come è nato il tuo interesse per la fotografia e il video?

Ti dirò, è stata una sorpresa anche per me. La mia formazione era orientata su un campo prettamente filosofico e psicoterapeutico. Durante il liceo mi sono appassionata alla politica, ho conseguito la laurea in filosofia e poi ho deciso di specializzarmi in psicologia all’Università Statale di Milano. Ricordo in quegli anni di aver partecipato ai gruppi di lavoro di Enzo Morpurgo su psicoterapia e marxismo e agli incontri del gruppo L’Erba voglio di Elvio Fachinelli. In seguito, mi sono formata come psicoterapeuta infantile con impostazione psicoanalitica. Fino ad allora non avevo mai pensato di dedicarmi all’arte in prima persona, lavoravo nelle scuole e nei servizi per il Comune. Avevo realizzato dei video per documentare l’inserimento dei bambini nel primo mese scolastico. Erano documenti di studio, non avevano intento artistico.

Credi che questi video abbiano giocato un ruolo determinante nel suscitare il tuo interesse per l’arte?

Soltanto a trentacinque anni ho scoperto questa grande passione per la fotografia, e intanto lavoravo nei Servizi Pubblici di Igiene Mentale di Milano. Ho allestito una camera oscura, ho iniziato a sperimentare con il bianco e nero, poi sono passata al colore. Naturalmente ho anche studiato molto: libri di teoria fotografica, mostre, convegni. Ho iniziato tardi ma con grande entusiasmo. Direi in modo repentino e senza incertezze.

È come se questa tua passione per la fotografia e il video fosse stata a lungo incubata, ma fosse destinata prima o poi a emergere. Pensi di essere stata influenzata da tuo padre, Guido Ballo, celebre critico d’arte? O da tuo zio, Aldo Ballo, anche lui fotografo?

Certo. Non tanto sull’amore per la fotografia in sé, quello sarebbe maturato comunque, credo, ma sul tipo di ricerca che ho sviluppato. Di sicuro, la mia ricerca è stata influenzata dal mio mondo familiare. I quadri appesi alle pareti di casa mia, Gianni Colombo, Rodolfo Aricò, Tancredi, si sono sedimentati nella mia memoria. Il lavoro di mio padre, i discorsi che facevamo in soggiorno. Insomma, il mio occhio si è abituato presto all’arte contemporanea. Sono cresciuta, circondata da opere che erano all’avanguardia. Insieme a mio fratello Francesco che in seguito sul cinema ha scritto molto, frequentavo la Cineteca e il Club Nuovo Teatro di Franco Quadri, dove ho scoperto i film sperimentali del New American Cinema Group.

E, naturalmente, ha dato un contributo a questo mio interesse anche mio zio Aldo: non solo era un grande fotografo di design, era anche un uomo simpatico e generoso. Ricordo le prime volte che andavo da lui per mostrargli le mie foto. Era sorpreso, perché all’epoca facevo la psicologa a tempo pieno e non avevo mai manifestato interesse per l’attività artistica, ma era anche contento di questa mia passione e mi esortava a coltivarla. Mi dava spesso dei consigli.

Oltre a questo humus familiare fertilissimo che ha favorito il tuo interesse per la fotografia, pensi che la tua esperienza psicoanalitica possa essere una delle ragioni della scoperta di questa passione? E quanto dei tuoi studi di psicologia è confluito nella tua pratica creativa?

Credo che ci sia una correlazione tra i miei studi e la pratica fotografica, tanto per cominciare mi sono avvicinata alla fotografia mentre ero in analisi. La fotografia ha il vantaggio di metterti in relazione diretta con il reale, è un modo nuovo di rapportarsi con il mondo e quindi con gli oggetti. È un mezzo di conoscenza che ci aiuta a cogliere il preconscio, una parte dell’inconscio. Come tutto ciò che è esperienza creativa, la fotografia può avere una valenza terapeutica. Ti aiuta a elaborare la realtà e a trasformarla.

In fondo, fotografia e psicoanalisi, sono entrambe, processi basati su una particolare relazione di ascolto con il mondo e mezzi di esperienza per attivare l’inconscio. Molti anni dopo la mia analisi, l’incontro con Salomon Resnik, che ha fatto alcune ricerche su arte e gli stati psicotici, mi ha permesso di indagare il mio lavoro fotografico facendomi intuire l’origine più profonda delle mie immagini.

Il parco (2006) – estratto

C’è un libro o film che ti ha segnata?

La Metamorfosi di Kafka è un libro che non può non cambiare chiunque lo legga, ha una forza straordinaria. Come film ti direi i Quattrocento colpi e Gli anni in tasca, ma in generale amo tutto il cinema di François Truffaut. Ha scritto e diretto molti lungometraggi che hanno per protagonisti bambini e ragazzini ed è necessaria una sensibilità straordinaria per raccontare questo genere di storie.

Quali sono stati i tuoi riferimenti?

I primi nomi che mi vengono in mente sono quello di Lewis Baltz, un grande artista visuale che ha lavorato molto con la fotografia concentrandosi sul rapporto con la natura e Gabriele Basilico che ho conosciuto assistendo ad alcuni suoi convegni e con il quale ho stretto una bella amicizia.

Lewis la prima volta che esaminò un mio lavoro mi disse che la mia ricerca era orientata soprattutto sullo studio della luce e che su quello mi sarei dovuta concentrare. Aveva ragione. Ancora oggi è soprattutto una certa qualità di luce che voglio fotografare.

Gabriele sapeva che il mio lavoro aveva un’impronta molto diversa rispetto al suo, eppure, proprio come mio zio Aldo, aveva la capacità di riconoscere il valore di opere, anche quando adoperavano linguaggi e modalità che si discostavano molto dalla sua ricerca. Mi incoraggiava a proseguire sulla strada che avevo trovato. Con entrambi ho discusso a lungo di fotografia. Gabriele viveva a Milano ed era più semplice, Lewis no, ma veniva spesso in Italia.

Li considero entrambi due miei riferimenti, nel senso etimologico del termine. Ma ci sono anche molti critici che hanno contribuito alla mia formazione di fotografa, per esempio Roberta Valtorta, e ancora Jean Francois Chervrier con cui mi sono confrontata sempre, con lui ho discusso tutti i miei progetti. Senza dialogo e senza confronto non è possibile produrre arte.

Quanto del tuo attivismo si ravvisa nella tua produzione artistica?

Credo sia ravvisabile soprattutto nella prospettiva della “non centratura”. Nel rifiuto di essere “verticale”, cioè l’essere umano che controlla. La mia fotografia trasgredisce i codici comuni e offre una prospettiva diversa, per esempio fotografando dal punto di vista di un bambino piccolo, quindi dal basso, o, ancora concentrandosi sui margini dell’immagine, sul fuori fuoco o sul fuori campo. Ci tengo a precisare però che la mia ricerca non si fonda sul contenuto, ma soprattutto sul linguaggio. Credo che la portata rivoluzionaria dell’arte stia più nelle modalità con cui si produce che in un messaggio da veicolare.

Video Agente Apri (2007):

Eppure non mancano opere dove il tema, o il contenuto, ha una certa preponderanza, come nel caso di Agente Apri (2007) il cortometraggio sui bambini nel carcere a San Vittore realizzato con Walter Niedermayr o come nel tuo ultimo lavoro Tatay che racconta il rapporto padre-figlio.

È vero ci sono alcuni miei lavori dove il riferimento a un contenuto ha una più riconoscibile valenza politica (come in Agente apri, sui bambini in carcere). Non che negli altri sia assente, ma il messaggio è più indiretto. Per esempio, in Urv-ara (2017), ho raccontato la storia di un albero che viene tagliato. Urv-ara in sanscrito significa albero e terra fertile. Le immagini degli alberi di Milano, riprese dal basso, vicino al terreno durante la potatura, ricordano questo doppio significato con uno sguardo empatico e non antropocentrico. Le foto di questa serie sono state pubblicate sulla rivista Segnature, diretta da Paola Lenarduzzi.

Quindi per te la forza trasgressiva dell’arte è, soprattutto, nel linguaggio

Per me l’artista dovrebbe concentrarsi soprattutto sulle modalità con cui trasmette la sua opera, il resto arriva di conseguenza.

Nella tua professione di psicoterapeuta ti sei occupata soprattutto di bambini, hai dovuto connetterti con il mondo dell’infanzia. Credo che questa tua esperienza maturata in molti anni abbia trovato espressione anche nella tua fotografia.

Ho dedicato grande attenzione alla relazione con i bambini e nel corso degli anni ho imparato ad ascoltare il nucleo centrale dell’angoscia del bambino. Non mi soffermavo solo su quanto il bambino verbalizza, ma sul suo linguaggio del corpo, sui cambiamenti di tono, sulla mimica. Questo mi ha permesso di sintonizzarmi con tutto quello che il bambino comunica in modo non esplicito attraverso una “attenzione fluttuante” in grado di intercettare tutte le cose non centrali e non evidenti e che pure hanno grande importanza.

Potremmo rendere questo concetto con l’espressione freudiana di “attenzione non intenzionale”, perché l’analista «non deve privilegiare a priori nessun elemento del discorso dell’analizzato, il che implica che egli deve lasciar funzionare il più liberamente possibile la propria attività inconscia e sospendere le motivazioni che dirigono normalmente l’attenzione» (Sigmund Freud Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico 1912).

Questo sforzo di entrare in relazione mentale con il bambino ha influenzato anche il modo con cui registro le immagini. Mi piace molto ricordare il suggerimento di Matisse che nei suoi ècrits et propos sur l’art suggerisce di «vedere tutte le cose come per la prima volta: deve vedere tutta la vita come quando era bambino».

La tua non è una fotografia analitica, al contrario più che descrivere un luogo ne offre una percezione parziale, sfocata, periferica. Tutto ciò che viene scartato dalla coscienza tu lo poni al centro. Perché fotografare in questo modo? E cosa intendi dire quando dichiari che il tuo soggetto privilegiato è “il rumore di fondo della mente”?

Con rumore di fondo della mente intendo definire il nostro modo di percepire le cose. Recepiamo molte informazioni di sfuggita. Nel nostro quotidiano scartiamo tante immagini, le guardiamo ma non ci facciamo caso, è il sempre-visto che non osserviamo mai perché non interessante. Sono le immagini registrate con la coda dell’occhio, distrattamente, mentre la nostra mente vaga altrove. Il mio lavoro ha voluto dare dignità a tutte queste immagini sulla soglia della nostra percezione. Nel lavoro Con la Coda dell’occhio del 1993-94, la città ripresa dal basso, i marciapiedi, le strade, le cose a cui non diamo importanza e che spesso incrociamo nel nostro tragitto a piedi verso casa.

Fotografo soprattutto gli scarti percettivi, per questo mi concentro tanto sui margini e sulla visione laterale. Quello che è importante per me non è la descrizione minuziosa di un paesaggio, ciò che conta è porsi in una relazione empatica con il luogo. Con le mie immagini voglio rendere la condizione di essere dentro un luogo, rendere in altre parole la presenza dell’oggetto-luogo senza abbellimenti o dettagli seducenti, semplicemente per quello che è.

Marina Ballo Charmet / Con La coda dell'occhio
Marina Ballo Charmet / Con La coda dell’occhio (1993-1994)
Nel tuo processo artistico, specie a partire da Con la coda dell’occhio (1993-1994), adotti uno sguardo ad «altezza bambino». Cosa ti ha indotto a questa scelta?

Le riflessioni sulla posizione verticale di Raoul Hausmann, tra i principali esponenti del movimento dada, mi sono rimaste impresse.

(Hausmann scriveva che «La disposizione verticale-orizzontale del testo sulla pagina fu combattuta e sconvolta (dagli artisti dada). Invece di dare seguito a forme pre-organizzate, gli artisti Dada crearono disordine, che divenne il loro piano di progettazione controcorrente». Questa strategia di disorganizzazione e ribellione era un tentativo di sfidare le norme estetiche e ideologiche dell’avanguardia precedente e contemporanea, oltre che un’esplicita critica alla società e al nuovo governo di Weimar. Ndr)

A colpirmi sono state soprattutto le sue parole a proposito della nostra visione sul mondo: «Abbiamo adattato da secoli il nostro occhio a un’ottica che rispecchi la nostra idea di possesso e la nostra tendenza all’”inferiorità”: perderemmo la nostra sicurezza di essere in piedi, di essere uomini, se attraverso la prospettiva dell’alto e del basso, del piccolo e del grande, non conservassimo la consapevolezza della nostra superiorità su quello che ci circonda attraverso una visione ipercompensativa» (Raoul Hausmann citato da Jean Francois Chervrier in Au bord de la vue).

Ecco, scegliere di evitare una visione centrale e una prospettiva verticale significa rinunciare a un controllo sul tuo soggetto fotografico. Inoltre per la definizione di questa modalità di ripresa, è stata significativa anche la lettura di un bellissimo testo sulla visione periferica di Anton Ehrenzweig che mi ha aiutato a focalizzare meglio il mio lavoro. Con la visione dal basso, caratteristica di molte mie fotografie, voglio rompere alcune regole compositive ormai assodate per dare spazio a punti di vista inediti. Cerco un contatto visivo, ma non mi interessa una descrizione, per quanto ben composta formalmente, di un luogo o di una persona.

Mi viene in mente Maurice Merleau-Ponty, un filosofo che si è interrogato molto sui concetti di presenza, esistenza e corporeità. Tutti aspetti che sono fondanti del mio modo di intendere la fotografia. Per esempio lavoro spesso sulla prossimità, la vicinanza, il tatto, il mio obiettivo è proprio quello di evocare queste sensazioni. Prima di andare a scattare, io medito a lungo sul tipo di immagine che voglio, sul tipo di luce che intendo catturare, ma quando arrivo sul posto devo avere la capacità di mettermi in “risonanza” con il luogo senza preconcetti.

Insomma, cerco di percepire con il preconscio. Divento come carta assorbente. Vivo lo spazio e cerco di rispecchiarmi nello spazio senza imporre le mie idee. Uso la fotografia per entrare in contatto con l’oggetto-luogo per restituire una percezione preconscia, non razionale, non controllata. È un atteggiamento di thaumazein —il meravigliarsi— che apre a nuove forme di conoscenza.

Marina Ballo Charmet / Il parco / Paris parc de la villette (2007)
Marina Ballo Charmet / Il parco / Paris parc de la villette (2007)
Questa tua modalità è evidente anche nel progetto che hai dedicato ai parchi delle città europee e americane dal 2006 al 2014, «ognuno con le sue caratteristiche, la sua densità particolare, le diverse forme di “privato” che appaiono nello spazio pubblico». Anche per questa serie hai adottato il punto di vista dal basso e il fuori fuoco escludendo la centralità e la gerarchia.

Sì, ho deciso di iniziare questo progetto quando Elio Grazioli mi ha invitata a Reggio Emilia al Festival della Fotografia Europea. Ho deciso di cominciare da Milano, dal parco Sempione, il parco della mia infanzia. Poi ho attraversato una decina di città italiane ed europee alla ricerca di parchi metropolitani, all’interno dei limiti della città. Parigi, Londra, Vienna, Lisbona, Madrid e anche Central Park a New York, mostrate alla XII Mostra Internazionale di Architettura, a Venezia nel 2010.

Non volevo riprendere una scena, ma registrare gli aspetti imprevisti, provvisori, di volta in volta diversi, rendere l’idea di star seduti e guardarsi intorno, senza privilegiare nulla in particolare. Ciò che appare è un campo percettivo, di esperienza, non un’inquadratura intenzionale, quasi che la macchina fotografica lavorasse da sola, scattando immagini di ciò che si trova intorno.

Marina Ballo Charmet / Primo Campo
Marina Ballo Charmet / Primo Campo (2001-2003)
Nella serie Primo campo (2001-2003) hai voluto rappresentare lo sguardo ravvicinato del bambino preso in braccio. Un ulteriore esempio di visione non antropocentrica, dove privilegi il campo visivo dell’infante.

L’idea era di mostrare il punto di vista di un bambino in braccio alla mamma o al papà. Volevo evidenziare la relazione che si ha con le figure familiari, una relazione di estrema prossimità. Un’intenzione che avevo già esplorato in Rumore di fondo, soprattutto nelle immagini tattili-olfattive sulla piega. Non puoi vedere il tutto, ma riconosci l’altro attraverso un dettaglio. La parte significa, dà senso al tutto attraverso un procedimento intuitivo.

Questa estrema prossimità di cui parli, in cui si perde la visione di insieme, annulla l’individualità?

No, palesa un’identità che è data dall’esperienza. Il bambino prima di formare un’identità centrata del volto della mamma o del papà ha un’identità che si fonda sui sensi. È soprattutto attraverso il contatto che impara a riconoscere l’altro. Il bambino si concentra su quelle piccole cose che nella visione di insieme gli sfuggono.

In effetti guardando queste fotografie si ha l’impressione di percepire il calore di queste persone, ritratte da una distanza così ravvicinata, si immagina di poter sentire il loro respiro.

Mi colpisce questa tua osservazione, perché non credo sia un caso se, Primo campo, è stato realizzato poco dopo un altro lavoro, che si focalizzava proprio sul suono del respiro. È affascinante riflettere sulla ragione che porta alla genesi di un’idea e sulla concatenazione di tutte le nostre idee, c’è qualcosa di misterioso a riguardo.

Il lavoro a cui ti riferisci è Conversazione, la tua prima installazione video, del 1998.

Esatto. Nell’installazione stai nel mezzo di una stanza e sei circondato da dieci monitor che trasmettono alcuni dettagli di vari soggetti: un ginocchio, una caviglia, un braccio, la gola. Le immagini sono quasi statiche, i movimenti minimi, come il deglutire, o l’impercettibile spostamento della mano. Non hai, quindi, la visione completa di queste persone, però puoi ascoltare il loro respiro.

Due anni fa hai presentato in Triennale l’installazione Tatay, dove affronti il tema della paternità.

È una installazione in cui dodici padri, di diverse lingue e nazionalità, cantano una ninna nanna al loro bambino. Abbiamo installato otto casse per trasmettere questa polifonia di voci. Nel mezzo della stanza c’è un filmato di un padre che tiene in braccio il figlioletto. È a colori, ma sembra quasi un bianco e nero, perché è molto scuro, appena percepibile. Ma se fai attenzione puoi distinguere il gesto di quest’uomo che accudisce il suo bambino.

All’inizio avevo pensato di adoperare come sottotitolo dell’opera la frase «No War». Volevo suggerire che se il padre è impegnato a tenere in braccio il figlio, non può imbracciare un fucile. È l’utopia di una metamorfosi degli uomini da guerrieri a custodi della pace notturna. Poi ho ritenuto più interessante trasmettere un messaggio d’amore paterno senza conferire significati accessori.

Marina Ballo Charmet / Tatay
Marina Ballo Charmet / Tatay (2021)

Perché hai scelto questo punto di vista anziché quello della madre? E come credi si possa rimodulare la figura paterna in una società che rifiuta il modello patriarcale?

Grazie al femminismo la famiglia patriarcale e autoritaria è andata in crisi. Mi interessa esplorare la relazione tra il bambino e questo nuovo padre che ha scoperto il contatto fisico con il neonato.

Nelle fotografie del progetto Tatay hai adoperato colori fortemente saturi, in contrasto con la produzione precedente contraddistinta dal bianco e nero o da colori tenui dove il bianco è predominante. A cosa è dovuta questa scelta? E perché l’acqua è un elemento così presente?

Nello specifico, ho usato questi colori perché cercavo di prendere le distanze dalla rappresentazione classica della famiglia, quella delle pubblicità per esempio. La mia intenzione era di trasformare queste due figure di padre e figlio in icone. Immaginavo un risultato che potesse rimandare alla Pop art. In un primo momento avevo addirittura pensato di dipingere sopra le foto, ma alla fine ho deciso di rendere questo effetto pittorico con l’ipersaturazione e con l’eccesso di sovraesposizione.

Ho preso spunto dagli ultimi film di Godard, come Le livre d’image (2018) e Adieu au langage (2014), applicando alle mie foto questo sfaldamento dell’immagine che caratterizza certe pellicole del grande regista francese. Non era semplicemente l’effetto pittorico quello che mi interessava, cercavo colori acidi, molto forti.

Più che uno stile pittorico, personalmente riconosco uno stile grafico con accostamenti cromatici violenti, privi di sfumature. C’è, infatti, questo contrasto spiazzante tra le immagini dei papà con i loro bambini, e l’utilizzo di questi colori che tu stessa definisci acidi.

Sì, per me era importante giocare su questo contrasto.

E a cosa si deve la costante presenza dell’acqua?

Far galleggiare il bambino è un gesto simbolico ed è legato al ruolo paterno.

Installazione Tatay (2021):


Marina Ballo Charmet

È nata a Milano dove vive e lavora. Da metà anni ottanta lavora con la fotografia e il video. Parallelamente, da più di trent’anni opera come psicoterapeuta infantile nei servizi territoriali pubblici di Milano.

Ha esposto in numerosi musei e istituzioni in Italia e all’estero in mostre collettive e personali, tra queste ultime si ricorda: TatayCon la coda dell’occhio, Galleria Il Ponte, Firenze (2023), Tatay, Istituto degli Innocenti, Firenze(2023),Out of Sight, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia(2022); Tatay, Triennale, Milano (2021); Fuori campo, Istituto Italiano di Cultura, Madrid (2019); Au bord de la vue, Le Point du Jour, Cherbourg (2019); Museo MAGA Gallarate (2018); Bleu du Ciel, Lione (2018); milanopiazzaduomo, Museo del Novecento, Milano (2015); Sguardo terrestre, MACRO, Roma, (2013); At Land. Bodyscape & Cityscape, Storefront for Art and Architecture, New York (2009); Il Parco, Triennale di Milano (2008); Marina Ballo Charmet, Centre National de la Photographie, Parigi (1999).

Ha partecipato alla XII Mostra Internazionale di Architettura Biennale di Venezia nel 2010 e alla XLVII Biennale d’Arte di Venezia nel 1997. 

Ha pubblicato diversi libri e cataloghi tra i quali Marina Ballo Charmet. Tatay, Gli Ori (2023); Urv-àra, Segnature 21 (2021); Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia, Quodlibet(2017); Out of the corner of my eye. Writings on photography, Quodlibet (ed. inglese, 2021); Au bord de la vue. Linee biografiche, Danilo Montanari Editore (2018); Sguardo Terrestre, MACRO-Quodlibet (2013); Oracoli, santuari e altri prodigi. Sopralluoghi in Grecia, Humboldt-Quodlibet (2013); Il parco, Charta(2008); Marina Ballo Charmet, Fotografie e video 1993/2007, Electa (2007); Primo campo, Le Point du jour Éditeur (2004); Rumore di fondo, Art& (1998); Con la coda dell’occhio, Art& (1995); Il limite, Associazione Culturale ItaloFrancese, Bologna, Bari (1992).

Simon Gusman
Simon Gusman
Viaggiatore compulsivo. Per molti anni ha vissuto in Chiapas dove ha conosciuto il Subcomandante Marcos. Al momento vive a Granada.

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