SPYNA / Arti Performative / Musica / Interviste / Progetto di poesia e musica elettronica, nasce dalla collaborazione tra Maple Juice @maplejuice_, producer attivo nella scena milanese, e Shara @shara_sound, poetessa, dj e performer.
Un’alchimia di linguaggi, quella dei due artisti volta a trasformare i paesaggi sonori elettronici in un mezzo per riflettere sull’alienazione nel mondo contemporaneo. Il tutto ottenuto attraverso esibizioni sincretiche con cui Maple Juice e Shara fondono musica, parola e performance. Nel progetto la connessione con il pubblico a un livello profondo avviene dando la giusta importanza al ritmo. Il prodotto di questa commistione sono delle vere e proprie poesie da ballare. La performance offre infatti a chi vi partecipa momenti pensati soprattutto per la condivisione dal vivo e per una relazione coinvolgente di pubblico e artisti. Con SPYNA l’esecuzione si traduce in momenti irripetibili, sempre diversi, che danno vita a una sorta di rito contemporaneo, tra ritmi sinusali e narrazione poetica, dove la voce si ibrida con la macchina e si fa essa stessa strumento musicale.
Li incontro nel loro studio, non lontano da Nolo. Devo confessare qualche attimo di titubanza, quando mi invitano a entrare nella bottega di un corniciaio, giusto il tempo di capire che al suo interno cela una stanza dedicata alla produzione musicale. Maple Juice, infatti, porta avanti anche l’attività di famiglia. Di giorno artigiano, di notte fa ballare fino all’alba gli avventori dei club underground, in un ritmo circadiano cadenzato dalle sue passioni, solo all’apparenza eterogenee.
Mi rendo conto che il luogo ospita due mondi, al pian terreno il legno, le cesoie da tavolo, le seghe circolari, i chiodi, insomma tutti gli utensili di un mestiere antico e sempre meno praticato, nel piano rialzato, in un ambiente rischiarato da un lucernario, un accatastamento di sintetizzatori, macchine di ogni risma, cavi aggrovigliati, tastiere, circuiti. Due mondi che convivono, quello di saperi tramandati da generazioni di falegnami e quello della tecnologia per produrre musica, che si rivelano un’efficace sintesi del progetto SPYNA, al confine tra l’essenza ancestrale dell’essere umano: l’homo faber e il cibernetico. Forse gli antichi romani ci avevano visto giusto sul Genius Loci, di sicuro non riesco a immaginare un luogo più adatto e fertile per fare fiorire la collaborazione tra questi due artisti.
Dopo un rapido break caffè dedicato ai rispettivi racconti di viaggio e considerazioni sul tempo impazzito degli ultimi mesi, ci accomodiamo nel piccolo cucinino e iniziamo l’intervista.
Perché avete scelto il nome Spyna?
Shara: Ci volevamo richiamare al triplice significato della parola spina. C’è la spina dorsale, quindi la componente umana, essenziale nel nostro progetto, che si articola nella parola, poi la spina della pianta, la componente organica, che si riscontra nelle melodie vocali che adoperiamo, infine la spina elettrica, la componente tecnologica, delle macchine, riscontrabile nei drums e nei vari synth. Senza dimenticare che le spine a volte pungono!
Insomma, con questo nome vogliamo rappresentare una commistione di nature diverse che si incontrano e si integrano. Questa associazione di idee, sintetizzata dal nome SPYNA, l’abbiamo concepita ancora prima che prendesse forma il nostro progetto. All’inizio l’idea era quella di collaborare a un evento musicale-performativo in cui combinare diverse modalità espressive. Dall’organizzazione di un singolo evento ha preso forma la nostra collaborazione artistica.
A questo proposito, vi va di raccontare qualcosa di più su com’è nata questa collaborazione? Per prima cosa, come vi siete conosciuti?
Maple Juice: Come ci si conosce sempre nel nostro mondo, giri di amici in comune nella scena della musica elettronica di Milano. Credo sia stata una collaborazione naturale perché siamo complementari. Shara cercava un producer di musica elettronica per perfezionare un progetto di poesia e musica che aveva già avviato per conto suo. Io amo lavorare con la voce. Non perdo occasione per campionarla, lavorarla, manipolarla. Mi piace l’idea di trasformare la parola in qualcos’altro. Farle perdere il contenuto e renderla pura sonorità. Però rimane parola, che non è canto, è linguaggio. È linguaggio umano che si fa musica.
Shara: Come ha detto Maple Juice, volevo produrre alcune tracce di poesia elettronica. Avevo iniziato, registrando le voci con il mio cellulare. Poi le caricavo su Ableton per editarle. Un giorno gli ho fatto ascoltare i miei esperimenti e lui si è offerto di registrare nel suo studio le mie poesie. Anzi ha rilanciato, proponendo di portare anche altri testi, già che c’eravamo, potevamo fare il recording di tutto il materiale, così avrei potuto portare avanti il progetto più agevolmente. A distanza di qualche settimana, sono andata a sentire un suo live, mi è piaciuto molto il suo modo di suonare e ho pensato che si integrava perfettamente con il progetto che avevo in testa, e gli ho proposto di collaborare.
E così è nato SPYNA. All’inizio Maple Juice portava le sue macchine, io avevo soltanto un microfono e un vocoder, poi, strada facendo, abbiamo aggiunto componenti, effetti, arrivando al risultato che hai potuto sentire l’altra sera al BiM (NdR una serata organizzata da COEVAL + NIVEEA + FRITTO.FM). Col passare del tempo le nostre specificità, la mia poesia e la sua produzione musicale si sono mescolate sempre di più, al punto che Maple Juice adopera la mia voce campionata come strumento mentre io tendo a sintetizzare maggiormente la voce, trasformandola in musica.
Come descrivereste il progetto Spyna? Cosa ha fatto scattare la vostra urgenza comunicativa?
Maple Juice: Ha origine dal bisogno di rappresentare l’oggi, il mondo in cui viviamo. In particolare il mondo in cui abitiamo Shara ed io, quello urbano, in cui si è attanagliati da una condizione di disagio. Cerchiamo di mettere a fuoco soprattutto il tema della tecnologia. Nella nostra contemporaneità, ogni giorno che passa, siamo sempre più succubi delle macchine. Ormai ne siamo schiavi.
Però, a giudicare dal coefficiente tecnologico di questo studio, direi che tu ami le macchine, non ti senti minacciato da questa schiavitù?
Maple Juice: Amo le macchine, è vero, ma mi sforzo di usarle in modo consapevole. Sono uno straordinario mezzo di comunicazione, forse l’ultimo che c’è rimasto. Hai l’opportunità di essere interconnesso con il mondo. Dopo tutto era il grande sogno di quel gruppo di pionieri che negli anni ‘70 ha dato vita alla Silicon Valley. C’era questo ideale, tipico della cultura hacker, di condivisione di informazioni, in cui ogni donna e ogni uomo potesse dialogare e infrangere le barriere della distanza e delle diverse culture. Ma c’è il rovescio della medaglia da film distopico: in qualche modo abbiamo creato una nuova dipendenza impossibile da sconfiggere, quella dalla tecnologia. L’evoluzione dell’umanità porta necessariamente, in una certa misura, anche la regressione dell’umanità.
E come districarsi in questa ambivalenza? Come si fa ad adoperare la tecnologia consapevolmente senza diventarne schiavi?
Maple Juice: Bisogna restare umani soprattutto per quello che concerne l’analisi e l’interpretazione della realtà. Certo, con la tecnologia oggi possiamo organizzare e catalogare milioni di dati, queste informazioni, però, non hanno nessun valore se non sono reinterpretate dalla soggettività di una persona.
L’elaborazione spinta della voce caratteristica delle vostre produzioni, nasce dal bisogno di rappresentare questa disumanizzazione in corso? E ritieni che questa scelta estetica e artistica abbia anche la valenza di una critica?
Maple Juice: Direi piuttosto una constatazione. Stiamo prendendo coscienza di una metamorfosi irreversibile. Questa disumanizzazione di cui parli la viviamo tutti nel nostro quotidiano.
Shara: Sì, infatti, uno dei temi che cerchiamo di portare alla luce è quello della tecnologia che aliena l’uomo. La tecnologia che lo isola. Sul banco degli imputati non c’è tanto lo strumento, ma l’utilizzo che se ne fa. Più in generale mi sento di dire che il nostro intento è di portare nella musica elettronica un contenuto, tra virgolette, di qualità. Spesso i testi hanno un aspetto marginale, il messaggio, se un messaggio c’è, il più delle volte è banale. Il fuoco è solo sulla parte ritmica. Noi vorremmo portare profondità e contenuti senza nulla togliere alla musica, anzi trovando una sintesi tra queste due istanze.
Pensando al vostro progetto a me vengono in mente le sperimentazioni della Digital Poetry, o per fare degli esempi più attuali, alcuni artisti di lingua spagnola che stanno cercando di combinare poesia e musica elettronica. Elektrosía, Maria Sevilla, Albertina Barceló e i suoi electropoema beatbox, o ancora, Seth Troxler e Patrick Russell. C’è qualche riferimento musicale che ha ispirato Spyna?
Maple Juice: In realtà, no. Non conosciamo questi artisti che citi. E se devo individuare un mio riferimento musicale ti direi la musica concreta. In particolare tutta la scuola italiana anni ‘50 e ‘60. Bruno Maderna, Luciano Berlio e compagnia. E poi è impossibile non scomodare John Cage. È proprio in quegli anni che la voce diventa strumento musicale. Tutta la teoria sulla concretezza dei suoni, come fossero già elementi musicali di per sé. Ci ho affondato le mani in quelle sperimentazioni e restano ancora oggi attuali. Un linguaggio autenticamente contemporaneo che ai tempi (e ancora adesso) si faceva fatica a definire musica.
Fa sorridere pensare che quando parliamo di sperimentazione nel 2024 spesso ci riferiamo a quella teoria e a quella pratica che ha sul groppone più di mezzo secolo. Come se non ci fossero stati ulteriori sviluppi.
Maple Juice: Perché sono intuizioni ancora valide. Ti dico una cosa, faccio anche il tecnico del suono e il sound designer, tutti i giorni mi confronto con la voce. Registro voci di continuo, voci e suoni. Alla fine ho interiorizzato il concetto di paesaggio sonoro di Pierre Schaeffer e riesco sempre a isolare tutti gli oggetti sonori che ci circondano. Quando comprendi queste teorie, inizi a vedere, anzi a sentire, il mondo diversamente. Puoi riconoscere la differenza tra il suono discreto, il suono concreto e il suono moderno della macchina e della città. Una musica che ci accompagna di continuo, che non si ferma mai, che ci avvolge, in contrasto con il suono organico umano o della natura che invece è discontinuo e ha un andamento più irregolare. Noi giochiamo con l’idea di ibridare questi oggetti di diversa provenienza.
Infatti, la voce nei vostri brani è molto rielaborata, al punto da diventare a sua volta un suono artificiale. Anzi direi cibernetico è talmente ‘effettata’ da non distinguersi più dalla macchina
Maple Juice: E consiste proprio in questo innesto, la spina. La voce viene manipolata fino a lambire il confine tra umano e non-umano. Raccontiamo questa convivenza uomo-macchina e anche la condizione di disagio che ne può derivare.
Credo che Yuval Noah Harari, che con le sue considerazioni sul postumanesimo è diventato famoso, apprezzerebbe il vostro intento. Vorrei fare una domanda a Shara per quel che riguarda i suoi testi. La lingua nella poesia ha una doppia funzione: vettore di significati, con contenuti sia informativi sia emotivi e vettore di suoni. A tuo avviso quanto l’aspetto contenutistico e il messaggio sono centrali nella vostra produzione?
Shara: Per prima cosa ci tengo a dire che tutti i testi adoperati per i nostri brani li ho scritti prima di avviare questa collaborazione. Erano testi pensati per la lettura. Sì, poteva esserci un sottofondo musicale, magari potevo adoperare un riverbero per la voce, ma il fuoco era tutto sul contenuto della poesia, la musica si limitava ad accompagnare. Solo di recente i miei testi si sono davvero sposati con la musica. Fa niente se non si distingue ogni singola parola. Ho sempre pensato alle nostre esibizioni come a eventi stratificati in diversi layer. Puoi percepire solo alcune parole chiave presenti nel loop, mentre balli.
E questo è uno dei modi possibili per esperienziare la nostra musica, muovendo il tuo corpo, la tua spina dorsale. Se ci pensi è proprio la parte umana a cui facevamo riferimento, ci sono io che canto, ma c’è anche il corpo del pubblico che partecipa alla performance. E non lo dico tanto per dire. Considera che tutti i nostri brani sono registrati da live, perché non sarebbe possibile fare altrimenti.
Maple Juice: Già. Spyna è quella cosa lì che combina il nostro lavoro con la partecipazione di chi ci ascolta. È tutto basato sull’improvvisazione e sulla relazione con il pubblico, al punto che puoi distinguere nel rumore di fondo delle nostre registrazioni la gente che balla in sala, un tipo di energia che non è possibile ricreare in studio.
Insomma, chi partecipa ai vostri live diventa parte della vostra musica. Ma tornando ai diversi livelli di stratificazione a cui faceva cenno Shara, qual è l’altro?
Shara: Oltre a seguire il ritmo, c’è un modo più profondo di accostarsi ai nostri brani, ed è quello di cercare di captare il contenuto, e questo è il layer successivo. Per esempio ricordo al termine di un’esibizione che un gruppo di ragazzi americani si è avvicinato per chiedere dei chiarimenti su alcuni versi. In definitiva non esiste un modo migliore di vivere le nostre performance, noi vogliamo dare la libertà allo spettatore di scegliere. Puoi scegliere di abbandonarti alla catarsi o puoi scegliere di restare ricettivo e vigile ai nostri messaggi. O puoi fare un po’ e un po’
Ma speri che il messaggio che vorresti trasmettere venga recepito, o per te è davvero indifferente?
Shara: Assolutamente, lo spero. Come ti dicevo la spina ti può pungere ed è quello che cerco di fare adoperando le parole giuste al momento giusto. Cerco di toccarti con alcuni concetti chiave e ti trasporto dentro quel mondo che voglio raffigurare. Poco male se non afferri tutto. Una soluzione che vogliamo sperimentare per consentire al pubblico di poter apprezzare i diversi layer della performance è quella di dividere l’uscita del suono in modo da avere un punto dedicato alla voce e l’altro alla parte musicale. Così sarebbe possibile mutare la percezione anche in base alla posizione spaziale che occupi, sei libero di muoverti tra la parola e la musica o di stazionare da un lato o dall’altro per vivere l’esperienza che più ti interessa.
Certo questo sarà possibile solo in spazi adeguati, a volte ci capita di suonare in ambienti piccoli, con una cattiva acustica, senza un adeguato soundproofing. Non sempre gli organizzatori si rendono conto delle necessità tecniche degli artisti, nel nostro caso di quanto sia complesso inserire campionamenti vocali su basi elettroniche, e, per non farci mancare niente, il tempo per provare è sempre ridotto all’osso. Insomma, non ti dico niente di nuovo, ma lo spazio in cui suoniamo condiziona la nostra performance.
Quando ho partecipato al vostro ultimo evento live sono riuscito a capire solo alcune parole, a volte scampoli di frase. Prima hai tirato in ballo la catarsi. L’impressione che ho ricavato dalla vostra esibizione è stata quella di partecipare a un rito. Una specie di riedizione 2.0 dei culti misterici di Dionisio o Demetra, ma con i gin tonic al posto del ciceone e della segale cornuta. Più che poesie, quei loop di parole a me facevano pensare a dei mantra. È stata una sensazione personale o vi riconoscete in questa attitudine, per così dire, mistica?
Maple Juice: Io mi ci riconosco totalmente. Questa è la mia idea di musica. Un mezzo per astrarsi, dove la parola diventa qualcos’altro.
Shara: Sì, il messaggio è sempre presente ed è quello che ho scritto con le mie poesie, però diventa allo stesso tempo qualcos’altro. È l’occasione per iniziare un viaggio. Poi c’è anche da dire che il live a cui hai partecipato era più orientato al ritmo, l’intellegibilità delle parole passava in secondo piano. Innanzi tutto volevamo farvi ballare. E sono d’accordo con te, alcuni concetti che cerco di trasmettere in modo ossessivo, diventano dei mantra a tutti gli effetti. Spesso per passare da un messaggio al successivo modulo diversamente la voce. E il mio modo di guidarti tra le diverse immagini che evoco.
Alla fine ci sforziamo, momento dopo momento, di trovare un equilibrio e di evitare i rischi che la nostra pratica comporta: da un lato non vogliamo favorire una dimensione troppo cerebrale e razionale in cui il contenuto prenda del tutto il sopravvento, e qui entrano in gioco i mantra che non devi capire, ma ripetere allo sfinimento fino a entrare in una condizione altra, dall’altro c’è il rischio che diventi semplice intrattenimento, la gente balla, sta bene, ma non fa caso alla profondità del nostro discorso. Io porto sempre i miei temi, ricorrenti in tutti i brani, per esempio la condizione di alienazione che vivono i nostri coetanei. L’ambizione è di trasmettere questi messaggi nei club, perché per me l’elettronica non dovrebbe essere solo dance, move your body.
A seguire Symbiosis Rituals Performance / Video: Piero Laganà @betafragile_
So che volete proporre eventi più performativi dove adoperate alcuni oggetti mediatori. Vi va di raccontarmi qualcosa in proposito?
Shara: È una performance che stiamo sviluppando e che procederà parallelamente alla nostra attività, più tradizionale, nei club. Pensavo a circa venti minuti, con tre poesie per ogni evento. In questo modo potrei proporre lo stesso formato cambiando testi per non ripetermi. In questo genere di performance l’aspetto vocale sarà preponderante e interagirà con l’oggetto, noi lo chiamiamo simbolo, che diventerà un attivatore della parola decomposta da ricomporre. Ogni poesia farà riferimento a specifici simboli.
Per esempio, statue di metallo dalle fattezze femminili o maschili. Io modifico il mio timbro per dare voce alle singole statue. Assumo diverse identità, modulando la fonazione. Spesso i simboli sono anche oggetti di uso comune che però acquisiscono un significato speciale, un martello che può fare pensare alla distruzione, chiodi o pinze che possono fare pensare a strumenti di tortura medievale. Oggetti di ferro arrugginito… Le possibilità sono infinite e la scelta del simbolo è dettata dalle poesie.
Attraverso questi simboli cerchi di materializzare la poesia.
Shara: Sì. Il simbolo rappresenta il senso ultimo e più profondo della poesia. Quando tocco l’oggetto e quindi, tra le righe, attivo il simbolo e la relativa sonorità, la parola viene destrutturata, per poi ricomporsi a poco a poco.
La musica fa parte di questa performance o è solo voce?
Maple Juice: L’idea è provare a costruire tutto dalla voce. Elaborare una parte ritmica musicale partendo come unico strumento dalla voce. Già lo abbiamo fatto in alcune produzioni che non sono ancora uscite. Nel live che hai sentito, per esempio, c’erano proprio alcuni drums composti da campionamenti della voce di Shara. O alcuni momenti quasi di beatboxing.
Cosa pensate di Milano? La considerate una città adatta ad artisti e creativi?
Maple Juice: Secondo me Milano offre un ambiente stimolante a livello culturale. Le possibilità ci sono, lo spazio c’è. Ci sono città considerate più aperte, ma non sempre la loro fama è meritata. Prendi la tanto osannata Berlino, almeno per quanto riguarda l’elettronica, negli ultimi anni ha virato molto sulla musica più commerciale e non è più così all’avanguardia come un tempo. Milano, al contrario, è molto considerata in Europa e addirittura nel mondo. È un luogo dove si può fare cultura. Spuntano di continuo nuove situazioni, soprattutto dal basso, anzi, esclusivamente dal basso perché a livello istituzionale l’attenzione per l’arte è modesta.
Ad esempio qua, in questa nostra zona c’è una vineria che ha uno spazio dedicato a mostre e performance. O addirittura nel passante ferroviario ci sono associazioni che organizzano spettacoli ed eventi (Ndr Arte passante), forse faremo qualcosa lì anche noi. O anche lo spazio dove ci siamo conosciuti (Ndr Argelab). In fondo Milano è proprio questo, e lo si percepisce anche dalla sua architettura, facciate severe, sobrie, che si confondono tra loro, qui sembra non ci sia niente, ma basta entrare dentro i cortili dei palazzi, per scoprire un mondo insospettabile.
Shara: Io sono contenta di essere tornata dopo tanti anni all’estero. Sto ritrovando una città rinnovata, in parte perché sono in un’altra fase della mia vita, in parte perché la città è effettivamente cambiata. Apprezzo la curiosità e l’apertura che ho riscontrato in giro. Persone che non frequentano abitualmente i vernissage o i concerti di musica sperimentale, per dire, che si dimostrano davvero interessate al tuo lavoro. A volte più degli “addetti ai lavori”. Credo ci sia ancora una vaga forma di contrapposizione nel mondo dell’elettronica tra chi fa musica più commerciale e chi fa proposte più performative, come nel nostro caso. Devo essere sincera, all’estero era più facile essere inclusi anche quando le tue proposte non erano del tutto conformi alla tendenza del momento.
Forse l’Italia sconta la sua tendenza individualista, c’è una scarsa propensione a collaborare, siamo focalizzati sul nostro progetto e non ammettiamo le contaminazioni con l’altro.
Maple Juice: Posso dirti che non è il nostro caso. Per esempio al BiM abbiamo collaborato con Chiara Scodeller @scodellerchiaraa e stiamo iniziando a ragionare su varie proposte di alcuni video-artisti per inserire un ulteriore elemento nelle nostre performance. Io in realtà credo che a Milano ci sia apertura e voglia di mescolarsi. Naturalmente non è facile, devi integrare l’altro nella tua pratica. Non voglio usare la parola compromesso, ma devi trovare le giuste modalità per avviare uno scambio reciproco.
Sviluppi e progetti per il futuro di Spyna? Cosa bolle in pentola?
Shara: Stiamo continuando a lavorare su nuovi brani e proviamo a prendere i primi contatti con le etichette. Vorremmo portare avanti quel progetto performativo, un po’ più sperimentale, che citavo prima. L’idea è di aprirci anche a luoghi fuori dal tipico circuito del clubbing. Residenze per artisti, gallerie d’arte, artist-run space… E poi ci piacerebbe partecipare a qualche festival. Ci piace questa esperienza più completa, che non si limita alla serata, quando una persona si ritaglia tre ore del proprio tempo libero per venirci ad ascoltare. Sono giorni dedicati interamente all’arte, una vera e propria immersione, dove i partecipanti riescono a trovare una connessione più profonda. Apprezzo, soprattutto, quei festival dove si contaminano diverse discipline artistiche.
Inoltre, a proposito di collaborazioni, siamo entrati in contatto con alcuni artisti georgiani durante la Design Week. Sono nate subito delle belle sinergie, li abbiamo invitati in studio ad ascoltare i nostri pezzi, loro non riuscivano a capire una sola parola, ovviamente, ma erano entusiasti di SPYNA! Sono felice di essere riuscita a trasmettere qualcosa al di là delle barriere linguistiche. Ci piacerebbe suonare a Tbilisi, se la situazione geopolitica lo consentirà, e in generale desideriamo aprirci a un panorama più internazionale.