Giuseppe Isgrò / Arti Performative / Teatro / Interviste / Phoebe Zeitgeist è una compagnia teatrale che si interroga sul contemporaneo ‘risignificando’ il presente. Nel giro di quasi vent’anni, si è circondata di un’aura corsara e scapigliata 2.0. L’estetica spiccatamente camp e post punk, gli spettacoli e le performance carnali e ipersensoriali di corpi, di sudore, di forti effluvi organici come il polpo bollito o l’urina, l’approfondito lavoro su grandi autori del recente passato (ostracizzati dalla società e dalla critica) come Copi o Mishima ne caratterizzano l’orizzonte immaginifico e teorico.
È importante però evitare facili equivoci. Il collettivo non cerca la provocazione sensazionalista. Al contrario, vuole, con estremo rigore, indagare ogni limite, specie quello del linguaggio. Ne deriva un percorso svolto con gli strumenti del teatro, delle arti performative, visive e sonore, il cui risultato è una forma espressiva ibrida e mutevole.
Incontro Giuseppe Isgrò (che con Francesca Frigoli ha fondato la compagnia) in viale Monza, nella sala prove di PZ, adibita anche a deposito di scena. Un ampio seminterrato, con le pareti dipinte di nero che concede un po’ di refrigerio in questa giornata torrida di inizio luglio milanese. È un luogo accogliente, che trasuda storia, oltre che umidità. Qui, il padre corniciaio di Giuseppe stipava la legna, oggi quello stesso sapere artigianale e creativo è ancora di casa, però rimodulato da falegnameria a bottega di immaginazione anarchica.
Come è nato il tuo interesse per il teatro? E a quale bisogno risponde la creazione di Phoebe Zeitgeist?
Posso considerarmi un outsider. Non ho mai frequentato un’accademia. Ho studiato Lettere Moderne all’Università Statale di Milano, dove ho avuto la fortuna di incontrare gli eredi della Scuola Fenomenologica di Antonio Banfi. In quegli anni ho approfondito lo studio di diversi autori, ho incontrato diversi docenti, alcuni illuminanti, tra di loro molti sono tutt’oggi dei referenti-fruitori del lavoro di PZ. Poi, le mie prime scorribande in campo artistico sono state musicali. Però, sia io, sia Francesca Frigoli abbiamo sempre frequentato laboratori di teatro sin dagli anni delle scuole superiori, anche prima, a dire il vero. E abbiamo rintracciato nell’esperienza teatrale la possibilità di essere pluri-linguistici e multidisciplinari, in maniera ‘ontologica’. Dopotutto, per me il teatro è un’unione di tante lingue dell’arte: dall’architettura, alla letteratura, alla musica, al linguaggio del corpo, alla pittura, all’urbanistica, all’antropologia.
Non mi è mai interessato il teatro di prosa classicamente detto, però abbiamo sempre interpellato dei testi, lavorato anche su grandi autori del passato, non abbiamo mai escluso comunque la tradizione teatrale dai nostri studi, dai nostri percorsi, dalle nostre ricerche. I grandi autori del teatro —in cui noi abbiamo trovato degli immaginari che ci rispondevano e che ci corrispondevano— sono stati anche portati in scena da Phoebe Zeitgeist. Penso al Baal di Brecht, penso al Torquato Tasso di Goethe, penso ai testi di Copi, le nostre prime sperimentazioni.
Il desiderio è quello di proporre spettacoli teatrali con lo stesso impatto di un concerto degli Psychic TV. Vorremmo sempre vedere Genesis P-Orridge sul palco. Vogliamo vedere qualcosa che abbia la prorompenza scenica di un Prince in concerto. Non ci interessa il raccontino, la narrazione, la scenetta. Phoebe Zeitgeist nasce proprio per proporre questa visione piuttosto carente in Italia. In pochi artisti teatrali italiani ho riconosciuto questo genere di impulso, cito per affezzione Alberto Astorri e Paola Tintinelli o Danio Manfredini, un grande maestro. Insomma, a noi interessa mettere in scena il corpo che sanguina (metaforicamente, non sulla scena), ma rimanda anche a un immaginario glam o queer.
A questo proposito, potresti definire l’orizzonte estetico di Phoebe Zeitgeist?
Sono un grande amante della cultura Pop. Simon Reynolds con il suo trattato sul post-punk ha influenzato profondamente il nostro immaginario nel fare teatro (Ndr: Post punk 1978-1984 in Italia edito da Minimum Fax), così come il mio amore per la musica e per le più svariate scene musicali lo hanno imbevuto di suggestioni. Io e Francesca abbiamo frequentato nella nostra formazione più i festival musicali, i concerti, il clubbing che gli spettacoli teatrali. Forse anche per questo il mondo teatrale ci considera un po’ incollocabibili.
L’obiettivo che mi propongo, come suggerisce il nome della compagnia, è risignificare il linguaggio. Fassbinder, essendo tedesco, quando ha scritto Phoebe Zeitgeist, ispirandosi al fumetto di Michael O’Donoghue, ha adottato una messa in scena che non può non far venire in mente Wittgenstein. La protagonista ripete parole di cui ignora il significato, mutandone l’intenzione. È un discorso profondamente teatrale ed è quello che a noi interessa di più nel nostro lavoro, cioè rendere ambiguo il linguaggio. Mai usare un linguaggio univoco e confortante, andare a trovare il punto di vista inaspettato, inaudito.
Un altro motore della nostra poetica è quello dell’ecologia relazionale tra persona e persona. Non solo ambientale, un’ecologia delle relazioni, dei luoghi, del paesaggio. Vogliamo costruire una comunanza ontologica. E dobbiamo farlo proprio per ribellarci a questa società che in nome del santo progressismo ha massacrato l’esperienza culturale e anche il modo in cui abitiamo il mondo. Come mangiamo, come cuciniamo, come coltiviamo, viaggiamo, ci relazioniamo, la lingua che usiamo per parlare.
Nel 2017, hai scritto con Francesca Marianna Consonni lo spettacolo ReProduction, definito come una commedia camp. È una definizione programmatica.
Certo. Phoebe Zeitgeist da sempre si identifica anche in questa categoria estetica. Camp è l’estetica dell’eccessivo, del melodrammatico, in chiave ironica e consapevole. Non si tratta di una mera provocazione, è vitale, rivelatoria, è goduriosa, è gorgeous, è libertaria, è anarcoide.
Susan Sontag nel saggio Notes on Camp afferma che questa sensibilità «Neutralizza l’indignazione morale».
E mi trova del tutto d’accordo. In tanti si indignano soprattutto perché riconoscono in certe forme d’arte un’altezza culturale conclamata, in altre no. Non stupisce, infatti, che i secchioni della filosofia considerino la Sontag troppo semplice, figlia di una filosofia minore. Dal loro punto di vista ha avuto la colpa imperdonabile di essere una figura della Pop culture. Io penso sia stata tra le intellettuali più significative dello scorso secolo.
Se non sbaglio la costituzione della compagnia risale al 2005
I nostri primi lavori risalgono al 2004-2005, ma ufficialmente la compagnia è nata solo nel 2008. Come band Noise Post Punk, però, siamo nati nel ‘99. Sin da quando eravamo giovani adolescenti o post-adolescenti abbiamo mescolato musica e teatro, declamando, nei nostri brani, alcuni testi legati alla cultura tedesca del secondo Novecento, o degli anni ‘20-’30. Una grande passione che ci accompagna ancora.
La vostra poetica e la vostra pratica teatrale hanno avuto un’evoluzione in tutti questi anni? E se sì, in quale direzione tematica o espressiva?
Io credo che permanga un caposaldo di fondo, vale a dire quella battaglia tra corpo e linguaggio di cui parla Antonin Artaud, tra i principali ispiratori di tutto il nostro lavoro. Inoltre, abbiamo conservato l’interesse per certi territori limite, che desideriamo ancora esplorare. L’interesse anche per certe narrazioni metaforiche, un certo tipo di fantascienza, per esempio, da Ballard a Le Guin. E ancora certi stimoli filosofici, un utilizzo pervasivo della musica, del suono. Insomma, vedo coerenza, e direi che non c’è stato un ripensamento critico, l’evoluzione è solo sul piano della tecnica. Oggi abbiamo acquisito più esperienza, ma le premesse sono rimaste quelle di sempre.
Oggi Phoebe Zeitgeist, mi riferisco al personaggio inventato da O’Donoghue, in missione sul nostro pianeta e incaricata di studiare gli esseri umani, troverebbe un contesto migliorato o peggiorato?
Se arrivasse oggi, credo che non cambierebbe assolutamente niente. Incontrerebbe grosso modo la stessa umanità, solo in un contesto leggermente diverso. Questione di maquillage.
A me il contesto pare molto diverso. Se dovessi individuare un tratto dello “zeitgeist” degli anni ‘20 del nuovo millennio penserei forse a una tendenza all’anti-progressismo. Sia in Occidente che nel cosiddetto Sud Globale.
Anche noi condividiamo un sentimento antiprogressista. Rifiutiamo un certo positivismo, di matrice illuministica. Questa nostra tendenza deriva da diverse fonti, per esempio Ingeborg Bachmann che si interroga con Paul Celan sulla possibilità di scrivere poesia dopo l’olocausto. Testimoniato da lettere che mozzano il fiato (Ndr: l’editore Nottetempo le ha pubblicate con il titolo Troviamo le parole). Oppure Yukio Mishima, un artista anche fortemente europeista nei gusti, ma che, allo stesso tempo, esalta un Giappone medievale, con i samurai, le katane e l’impero del Sol Levante, in opposizione al miracolo economico degli anni ‘50-’60. Mishima considerava un tradimento, da parte del suo popolo, l’aver accantonato le proprie tradizioni in favore di un modello capitalista di stampo occidentale e condannava il fatto che il Giappone, nonostante l’esperienza della bomba atomica, avesse abbracciato gli usi e i costumi di coloro che lo avevano quasi annientato solo quindici anni prima. Il tragicomico suicidio rituale, il seppuku, in differita televisiva di Mishima è una delle dichiarazioni artistiche più forti che mi vengano in mente.
Le avventure di Phoebe Zeitgeist è una sorta di riedizione comic / sessantottina di Justine di Sade. Un’intuizione dell’autore è stata quella di interagire con il pubblico, attraverso un sondaggio, sulla sorte della protagonista. Infatti, Phoebe era seviziata o addirittura uccisa nei modi più perversi e bizzarri, al termine di ogni numero, e puntualmente resuscitata nell’episodio successivo. Qual è il vostro rapporto con il pubblico? Anche voi sollecitate un’interazione attiva?
Abbiamo un rapporto viscerale col nostro pubblico, di reale scambio. Esso ci aiuta a interrogarci di continuo sui contenuti, sulle istanze, sul perché facciamo determinate scelte. L’esempio che fai, del coinvolgimento e dell’interazione con i lettori di O’Donoghue mi sembra calzante. Noi cerchiamo un’esperienza simile attraverso i laboratori che organizziamo. Sono immersioni totali nei nostri dispositivi, nei nostri giochi. Alcune persone che vi hanno preso parte, negli anni, sono diventate nostri collaboratori e, in generale, rappresentano lo zoccolo duro del nostro pubblico, non solo a Milano, in giro per l’Italia.
Vorrei soffermarmi sulla vostra attività laboratoriale. Faccio una breve premessa, la parola “laboratorio” deriva dal latino medioevale “laborare”, “lavorare” in italiano. Ha un’accezione molto pratica, di artigianato e di sperimentazione. Nei laboratori chimici, per esempio, si mescolano diversi reagenti e si osserva cosa succede. Tanti però lo usano come sinonimo di corso o workshop. Voi come intendete l’attività di laboratorio?
Direi che siamo sulla stessa linea d’onda, intendiamo i nostri laboratori proprio così, come sperimentazioni e messa in discussione continua anche di noi stessi. Anzi, ti ringrazio per avermi dato l’opportunità di trattare questi argomenti. Noi chiediamo ai partecipanti la disponibilità di mettersi, in qualche modo, in pericolo. Bisogna affrontare esperienze performative che definirei organiche, sensoriali, non alla portata di tutti. In fondo questo fa parte del nostro modo, olfattivo e carnale, di fare teatro. Nello spettacolo Malagrazia, cuocevamo un polpo in quinta, e la sala era invasa da questo intenso odore di polpo lessato che a fine spettacolo, gli attori offrivano anche al pubblico, dopo averlo tagliato con un rasoio da barba e averlo mangiucchiato.
In Kamikaze Number 5, dal testo di Giuseppe Massa, l’attore Woody Neri pisciava realmente in un secchio davanti al pubblico e si trascinava dietro questo secchio pieno di urina. Per riuscire nell’impresa, beveva litri d’acqua prima di salire sul palco. Durante una replica a Roma il pubblico ha reagito con violenza, disgustato, arrabbiato. Siamo stati quasi aggrediti. Ma ci tengo a dire che per noi non è una provocazione tout court o la volontà di épater le bourgeois. Proponiamo il limite come esperienza critica. E questo è vero anche per i laboratori.
Quando si sceglie di partecipare a un nostro ciclo laboratoriale non è detto che sia perché il teatro rappresenta una scelta di vita e/o professionale. La pratica teatrale può essere anche utile a vivere meglio, ancora di più se nella vita, per guadagnare, ti occupi di tutt’altro. Non può essere un lavoro per tutti. Sono tanti gli artisti di altri ambiti, musicisti, artisti visivi che hanno partecipato ai nostri laboratori. Sono diventati i nostri collaboratori, i nostri amici. Per noi è centrale anche il tema dell’amicizia. Alcune persone hanno abbandonato, perché non reggevano certi livelli di intensità. Altri partecipanti hanno formato delle cricche urbane, come le definiva Susan Sontag in Notes on camp che citavi prima.
Noi diamo la possibilità di sperimentare linguaggi, di accedere ad autori meno noti e a posizionamenti inediti. Ci sono persone che ci seguono da anni e hanno affrontato insieme a noi numerosi testi. Tecnici di ospedale, infermieri, artigiani che vengono qui per il piacere di sperimentare. Sperimentazione del proprio sé in uno spazio privilegiato. Un luogo non quotidiano, dove la nostra percezione su noi stessi cambia.
Ma fate laboratori rivolti anche ai professionisti?
Assolutamente sì, ma ci teniamo a mantenere distinte le due proposte. Penso che in questa società chi sceglie di vivere di teatro faccia una scelta sacrificale e non si può confondere con chi si diletta o si interessa al teatro, ma nella vita ha altre fonti di reddito. I nostri laboratori per i professionisti sono rigorosamente gratuiti. Su questo abbiamo un posizionamento politico molto preciso.
Questo vostro approccio al lavoro di laboratorio è una conferma di quella propensione alla transdisciplinarità, il desiderio di contaminare e meticciare i vostri spettacoli con musica (penso al contributo di Giovanni Isgrò / Maple Juice, Alessandra Novaga, Elia Moretti, Shari DeLorian e altri), video, arte visiva e performativa, letteratura e filosofia. Questo sincretismo di linguaggi necessita di un accurato lavoro di amalgama e di sintesi nell’espressione teatrale.
La transdisciplinarità è dal principio il nostro faro. È l’idea di mescolare non soltanto forme espressive diverse, ma soprattutto persone che provengono dagli ambiti più disparati. Nel 2009, per esempio, attraverso una semplice email, ho preso contatto con uno dei filosofi che più ha informato la nostra ricerca, Antonio Caronia, il traduttore de La mostra delle atrocità di J.G. Ballard. Lui, a sua volta, ci ha presentato Francesca Marianna Consonni che è la nostra dramaturg e oggi compone insieme a me e Francesca Frigoli, il direttivo di questo gruppo. Ricordo che Caronia, pur essendo molto impegnato, con incarichi in atenei e accademie, veniva sempre qui, in questa cantina dove ci troviamo adesso, questo sottoscala, come qualcuno lo ha definito, per mesi, a seguire le nostre prove.
Ha addirittura performato in piazza Oberdan insieme a Phoebe Zeitgeist, seduto per cinque ore su una poltrona per uno dei nostri lavori d’esordio, in seguito installato alla Fondazione Mudima. Il nostro processo creativo è lo stesso che mettiamo in pratica nei laboratori. All’inizio, esortiamo le persone che arrivano a raccontarci di cosa si occupano. Per noi l’elettricista è importante quanto il musicista, il sarto, la truccatrice, la parrucchiera. Tutti portano valore aggiunto. Il sapere di ognuno rientra nell’opera che andiamo a costruire. E quando ci confrontiamo con saperi extra teatrali o addirittura extra artistici siamo ancora più contenti. La nostra sodalità decennale con realtà quali Terzo Paesaggio si basano su questo assunto.
Phoebe Zeitgeist ha sempre affermato la specificità dell’arte teatrale di farsi ‘luogo’. Sono numerosi gli esempi di performance site-specific, in contesti extra teatrali. Vengono in mente gli attraversamenti performativi di Promiscua, l’installazione presso la Fondazione Mudima di Milano che hai citato, o i recenti interventi a Chiaravalle in collaborazione con Terzo Paesaggio. Puoi dirci qualcosa su come vivete artisticamente la dimensione teatrale dello spazio?
Uno dei cardini del nostro lavoro è riscrivere lo spazio. Abbiamo spesso lavorato fuori dall’edificio teatrale, in centri sociali occupati come Macao o Lume, o recentemente nel borgo di Chiaravalle. In questo senso la città per noi è per intero un luogo scenico. Fare teatro significa soprattutto dialogare con la città, i quartieri e le architetture. Anche nei teatri convenzionali ripensiamo l’opera in relazione allo spazio, ‘riscrivendolo e risignificandolo’.
E più nello specifico, qual è il vostro rapporto con Milano?
Milano in questo momento trabocca di fervore creativo. È una delle città più importanti a livello internazionale, non solo nel mainstream, anche nell’underground. Certo, è una città che va setacciata a fondo, tiene tutti i suoi tesori nascosti. Io la esploro visceralmente e posso dire di conoscerla negli anfratti più reconditi. È una città che io amo profondamente, ma ci sono stati anche grandi conflitti. Specie quando ero molto giovane e spesso fuggivo in altre capitali che all’epoca erano più stimolanti per il mio percorso.
E della scena teatrale meneghina che mi dici?
Premetto che noi ci astraiamo un po’ dalla scena teatrale, perché, come hai sottolineato, ci piace dialogare con diversi e svariati ambiti. Poi ci sono realtà con cui collaboriamo proficuamente. Penso a Teatro della Contraddizione. Con loro ci amiamo, ma è un luogo più unico che raro. Un luogo utopistico, antieconomico. Insomma, un luogo che ci corrisponde perché scellerato, come siamo scellerati noi, dove la convenienza e il profitto sono l’ultimo dei pensieri. Infatti, con Marco, Micaela, Sabrina, Stefano siamo stati sulle barricate tante volte. Ci sentiamo, ci vediamo costantemente. Trascorriamo le notti a parlare. Sono i nostri fratelli più grandi e se abbiamo stretto questo legame il merito va ad Andrea Perini di Terzo Paesaggio, che ci ha suggerito di incontrarli tanti anni fa, indovinando un’affinità, una comunione d’intenti.
Quando lavoriamo a uno studio, a uno spettacolo è a loro che ci rivogliamo per un confronto, imbastendo la prima messa in scena. Un paio d’anni fa, per esempio, abbiamo organizzato insieme Promiscua (il nostro dispositivo di incroci performativi) dove erano invitati a suonare Nicola Ratti, Maple Juice, Elia Moretti, Shari DeLorian. Per l’occasione abbiamo realizzato la performance Persephone La Ferita in collaborazione con Danilo Vuolo. Questa ferita ottativa veniva incrociata con la parola teatrale ed era/è il luogo dove noi abbiamo carta bianca, dove abbiamo sorellanza pura, se dobbiamo parlare di un luogo, è quello. Oltre al Teatro Elfo Puccini che ci accoglie sin dai nostri esordi.
Però, a parte alcune realtà affini, facciamo non poca fatica con l’ambiente teatrale italiano. Credimi, avrò visto un milione di spettacoli, e continuo a farlo anche adesso, però, mi interessa di più vedere cinema, andare alle mostre d’arte, andare ai concerti, da quelli più pop a quelli più sperimentali.
Oggi c’è una forte tendenza moralista, azzarderei puritana (perché di ispirazione statunitense) che tende a processare autori del presente o del passato, colpevoli di non aderire perfettamente al sistema dei valori dominante. Lo stesso Fassbinder è stato travolto da accuse infamanti, cioè di nutrire simpatie per i regimi fascisti. Qual è la tua opinione sul rapporto tra arte ed etica? Quanto un autore dovrebbe essere libero, o quanto dovrebbe invece autocensurarsi per non offendere certe sensibilità? In questo senso è forse emblematico il vostro spettacolo ASPRA, che si potrebbe considerare un discorso sulla scorrettezza.
Direi sulla necessità della scorrettezza. Per comporlo, abbiamo selezionato alcuni testi di autori da noi molto amati. Testi che hanno causato innumerevoli grattacapi ai loro autori. Per esempio lo sdegno della sinistra borghese e progressista per Pasolini, e ancora i testi di Mishima, che si possono trovare, indifferentemente, nelle librerie hipster di Nolo, come in quelle di Casa Pound. Abbiamo sempre amato questo tipo di cortocircuito, questo tipo di disturbo, di tendenza provocativa dell’arte. Una tendenza anche pericolosa, dove il fraintendimento è dietro l’angolo e si può essere facilmente messi sulla graticola.
Lo abbiamo realizzato in occasione di Cross Residence a Verbania, poi ha girato. Si è evoluto. Nel 2022 è andato in scena al PAC con un nuovo cast, un nuovo assetto. Perché è una sorta di recital mutante sempre in grado di trasformarsi. Noi applichiamo alle pratiche del teatro le dinamiche della crisi. Un nostro lavoro non potrà mai essere uguale a se stesso, non può essere il prodotto montato e finito. Si deve adattare alle situazioni, sia per questioni economiche, culturali, politiche. Deve mutare, essere mutante, essere adattabile, essere come uno scarafaggio che passa sotto la porta.
Spesso, quando artisti contemporanei enunciano le loro fonti di ispirazione, si citano movimenti come il dadaismo, il Bauhaus o l’arte povera, o, autori che, quando va bene, sono morti da mezzo secolo. Siamo consapevoli che un artista per essere storicizzato, come minimo deve attendere la propria morte, eppure, oggi, non sembra esserci traccia, per esempio, di drammaturghi in grado di riformare il teatro come hanno fatto Brecht o Beckett. E come se si fosse smarrita la capacità di aggregarsi in movimenti artistici. Stiamo attraversando un inevitabile declino da ‘basso impero’, o, più verosimilmente, i tantissimi artisti contemporanei non sono più intercettati dalla cultura istituzionale?
Mi fa sorridere questa tua riflessione, perchè spesso ci accusano di essere troppo legati ad anni lontani che non ci appartengono. Gli anni ‘70 e ‘80 che per noi si ‘risignificano’ in continuazione, in fondo sono anche gli anni delle nostre date di nascita. Sì, credo siano gli anni più interessanti a cavallo del Novecento, quelli che hanno determinato un cambiamento nelle pratiche, nei linguaggi, più significativo. Tanto per dirne una, sono gli anni in cui è esploso il tema del corpo, pensa all’estetica cyberpunk, o il tema dello sporco come dice Giorgio Manacorda riferendosi a Fassbinder. Gli anni ‘70 sono l’introduzione dello sporco autentico, dell’organico, del vomitevole nell’arte. Per quanto riguarda l’arte visiva il primo pensiero va alla cosiddetta Body Art, ad artisti come Urs Lüthi o Gina Pane che hanno informato profondamente la nostra ricerca. Non so se si può considerare una colpa, ma sì, per me l’arte degli anni ‘60 ‘70 ‘80 è una riserva immensa di immaginari e di estetiche.
Noi siamo debitori ad autori come Ballard, ma anche a filosofe più contemporanee come Donna Haraway e Judith Butler. Corpo Celeste di Anna Maria Ortese, per esempio, è uno scritto che anticipa in maniera ‘animistica mediterranea’ tanti discorsi sull’ambiente, sulla relazione con gli animali, con le creature, con il corpo celeste della terra, tutte questioni che oggi sono di tendenza.
C’è questo tifo tra passatismo contro futurismo in cui io non mi riconosco, perché secondo me il presente si risignifica nel passato e non esiste il futuro. Dante e Goethe hanno saputo affrontare questioni inerenti al reale in maniera più complessa e sottile rispetto a certe cosiddette avanguardie letteraria. Perché dovremmo abbandonarli, se ci parlano ancora?
Ultimamente, all’interno del nostro ciclo Persephone che giungerà a settembre al Piccolo Teatro di Milano come La Vita sognata. Diorama Chiaravalle, abbiamo rintracciato alcune autrici tra cui Hildegard von Bingen che si è occupata attorno all’anno 1000 di argomenti oggi incredibilmente attuali, come certe pratiche di sperimentazione sulla natura o sullo sfruttamento del territorio, questioni su cui si interrogano gli urbanisti contemporanei e ha fatto cenni persino alla questione di genere e al transumanesimo. Tutti argomenti che sono il pane quotidiano dei salotti più à la page ai giorni nostri.
Non può mancare in ogni intervista che si rispetti, il momento della critica al teatro contemporaneo italiano. Chi lo frequenta appartiene a una nicchia sempre più piccola, gli operatori di settore si guardano a vicenda con autoreferenzialità disarmante, e l’arte teatrale, considerata un po’ âgée e paludata, fatica ad attirare nuovo pubblico. A peggiorare il quadro desolante, le risorse disponibili sono sempre più risicate. Cosa si può fare per invertire questa tendenza?
C’è l’abitudine, anche tra le nicchie che più sperimentano con i linguaggi, di affermare che il teatro rispetto all’arte contemporanea o alla musica è una roba vecchia, ammuffita. Queste critiche spesso arrivano da artisti visivi che in Italia vanno a vedere solo certe produzioni teatrali romagnole. A Berlino, per esempio, non esiste questo tipo di segregazione, di distinzione tra arte nobile e meno nobile. A uno spettacolo di Frank Castorf vanno gli artisti, i galleristi, i musicisti. Quando ci siamo esibiti al PAC con la nostra performance su Copi, abbiamo dovuto lasciare la gente fuori, tanto era l’interesse che aveva suscitato. Diego Sileo (@diego.sileo) quando lo abbiamo interrogato per capire fin dove potevamo spingerci, ci ha lasciato carta bianca, e così abbiamo portatato un attore nudo in trionfo dopo averlo fatto frustare e uccidere da un altro performer, in uno spazio del comune di Milano.
Puoi raccontarmi qualcosa a proposito della webzine BLUT?
È un progetto che nasce dall’iniziativa di Francesca Frigoli. Lei ha una formazione da artista visiva e ha lavorato per tanti anni nel settore dell’editoria d’arte. Quando BLUT è nata, Francesca lavorava per una casa editrice d’arte contemporanea di Milano, Gianpaolo Prearo Editore. Questi stimoli hanno dato il là al desiderio di inaugurare una nostra fanzine, inizialmente cartacea: BLUT, sangue, in tedesco. Abbiamo coinvolto filosofi, studiosi, artisti. Abbiamo attinto da quella rete intessuta negli anni, fondata sugli interessi condivisi e sull’amicizia. Ogni numero era illustrato da un artista diverso.
Poi è arrivata la pandemia. È stata un’occasione per riprendere in mano BLUT, ripensandola sulla base del nuovo contesto, così è diventata una webzine. Certo non è facile starle dietro e fare uscire nuovi numeri con costanza, perché tra spettacoli, laboratori e i numerosi impegni della vita quotidiana, il tempo scarseggia. Eppure, resta un progetto fondamentale per noi. Addirittura imprescindibile, per la stessa ragione per cui ho accettato di buon grado questa intervista. Per noi è necessario fare riflessioni teoriche sul nostro lavoro con tutti coloro che hanno l’interesse, le competenze e il desiderio di confrontarsi.
Non possiamo fare a meno di questi scambi ragionati, di questo desiderio di scoperta e di conoscenza multiforme. BLUT ci consente proprio di sistematizzare e dare testimonianza della nostra costante ricerca.
Progetti per il futuro?
Come accennavo, attraverso tutto il nostro lavoro extra teatrale di anni, arriveremo in scena a settembre, proprio al Piccolo Teatro di Milano con Immersioni Festival e Mix Festival. Ci stiamo preparando da tre mesi e ci tengo a ringraziare Mare Culturale Urbano che ci ha coinvolto nel proporre un’indagine, un percorso di ricerca che ci accresce e conferma nel nostro modo di agire. Proviamo a Chiaravalle, nelle rogge, tra le zanzare e le cascine abbandonate. Luoghi della nostra giovinezza. Proprio qui, infatti, venivamo ai rave party in quegli anni Novanta che oggi sembrano un’epoca lontana e quasi impossibile. Come in un rave party, per noi il Teatro è un luogo di corpi che respirano, che si parlano, che si rispondono, che sudano, che pulsano insieme. Il nostro progetto per il futuro è continuare a fare quello che facciamo, nel nostro presente.