Verdiana Calia e Mattia Montemezzani / Arti figurative / Fotografia / Interviste / Quella dell’artista è forse l’attività più emblematicamente autoriferita, nell’immaginario collettivo l’opera d’arte è cifra della personalità originale e unica del suo autore. Verdiana Calia e Mattia Montemezzani rovesciano questo postulato, sperimentando una ‘arte di coppia’, o più in generale arte collaborativa.
Nel concreto, danno vita a un’opera pittorica o a una scultura fondendo le proprie individualità: nel gesto creativo, i tratti si uniscono, i colori si rimodulano costantemente in rapporti di contrasto o di complementarietà, un’idea abbozzata da uno dei due può essere portata a compimento dall’altro/a. L’opera diviene l’esito di un continuo scambio e confronto che gioca su apertura, fiducia e spiccata empatia.
Si potrebbe affermare che per fare arte con queste modalità sia necessario assimilare quella Theory of Mind, formulata nel 1978 da David Premack e Guy Woodruff, vale a dire quella capacità di cogliere le differenze tra i propri stati mentali e quelli dell’altro, affrancandosi da una prospettiva centrata esclusivamente su se stessi.
Verdiana e Mattia sono come madre e padre delle loro opere, oltre a essere una coppia di genitori anche nella vita. Infatti, la generazione dei loro disegni, dei loro dipinti, delle loro sculture si svolge tramite processi misteriosi che richiamano la teoria cromosomica dell’ereditarietà. È il lavoro di due individui sulla stessa “tela bianca” che porta a un risultato di ibridazione dove i caratteri personali si mischiano senza perdere la loro identificabilità.
Il metodo è stato perfezionato durante i lunghi anni trascorsi in Polonia, dove i due artisti hanno partecipato al gruppo Nowolipie, un’organizzazione di Varsavia rivolta ad adulti con disabilità fisiche o psichiche, a lungo diretta da Paweł Althamer. E non è un caso se il lavoro teorico del celebre artista polacco, Common Space—Private Space, promuove un incontro tra linguaggi visivi individuali in uno “spazio comune” mediante una comunicazione non verbale tra gli artisti, con lo scopo di neutralizzare l’individualismo.
Oggi, nel loro studio alle porte di Milano, Verdiana Calia e Mattia Montemezzani conducono laboratori e workshop rivolti a bambini e adulti, impostati sullo stesso processo creativo: ai partecipanti è richiesto in una prima fase di esprimere il proprio sé artistico, per poi aprirsi e integrare l’altro nella costruzione di un’opera collettiva. La collaborazione richiede un dosaggio di istinto e di razionalità. Da visuali diverse dalla propria, è possibile imparare a conoscere se stessi molto più a fondo.
In copertina: Un’opera dalla serie I VULCANI (2021) tecnica mista su tela, 125 x 125 cm
Una definizione della vostra arte?
Considerando che ogni cosa può essere un’opera d’arte, possiamo rispondere dicendo che il nostro modo di fare arte può essere ogni cosa.
Come siete approdati a questa forma di arte collaborativa? Ci raccontate se avete incontrato qualche difficoltà nel praticarla?
Le nostre volontà e prospettive si uniscono attraverso un processo di allineamento necessario per facilitare lo scambio di informazioni e questo si ottiene rispettando le regole base di partecipazione a un lavoro comune e collettivo (workshop).
Le teorie della coproduzione offrono modelli standard, ma questi vanno poi calati nella realtà specifica che è unica, ricca, variegata e difficilmente standardizzabile. Se si guarda alla realtà come inadatta a produrre un modello nascono grossi impedimenti, ma non è la realtà che va adattata al modello, è il modello che va adattato alla realtà.
Perciò riflettiamo insieme e accumuliamo esperienze specifiche anche sui processi di collaborazione. Il vissuto individuale è preziosissimo. Le persone non si rendono conto della ricchezza di idee che possiedono.
Questo ci spinge a riflettere sulla nostra competenza in positivo, come qualcosa che ha elementi di novità, piuttosto che —come spesso accade— come qualcosa a cui invece mancano degli elementi. Non è facile. La tendenza è quella di mettere a fuoco le mancanze, proprie o altrui, ma è possibile guardare alla nostra cognizione come a qualcosa di nuovo. Si tratta di un momento in cui ci fermiamo e iniziamo a raccontare la nostra avventura, innanzitutto per prendere coscienza e confrontarci tra di noi e iniziare in tal modo ad arricchire, sviluppare e soprattutto rendere più efficace il nostro operare artistico.
Le situazioni vengono intese come eventi reali e non come simulazioni. Sono avvenimenti che saranno ricordati. Quando affrontiamo insieme un lavoro, generalmente troviamo utile confrontare le rispettive visioni e accordarci su un piano che sia accettabile per entrambi.
Normalmente tale processo avviene prima, durante e dopo il workshop; è evidente che se le adesioni sono il risultato di una inserzione, la partecipazione attiva diviene il motore che fa funzionare tutto l’insieme. Al fine di comprendere bene la proposta e svolgere il lavoro nel migliore dei modi, occorre sempre porsi la domanda: «E adesso?»
Il piano di azione dovrebbe fornire risposte a domande quali: «Che cosa mi propongo di ottenere in seguito all’esperienza di oggi?», «Che cosa devo fare, ed entro quale termine?» e ancora: «Di quali risorse potrei aver bisogno?»
Il tempo impiegato a pensare è tantissimo, al contrario la realizzazione dell’oggetto può concretizzarsi rapidamente, come un atto che deve rimanere fresco e chiaro.
Dipingere insieme ha rafforzato anche la vostra relazione di coppia? Per collaborare a uno stesso lavoro è indispensabile un buon rapporto?
Sì, quando si genera qualcosa insieme, inevitabilmente, ci si conosce più in profondità. Noi siamo diventati genitori. Per quante supposizioni si possano fare, nessuno è in grado di prevedere quale sarà l’aspetto dell’ultima opera o il carattere di una nuova creatura. L’atto della riproduzione, presuppone infinite possibilità di combinazioni tra i geni; l’ ereditarietà di un carattere non dipende da un unico gene, bensì da più geni, infine al patrimonio genetico di un nuovo essere contribuiscono non solo i genitori, ma anche tutti gli ascendenti. Come la ricombinazione dei compiti durante un workshop può essere paragonata al crossing over, la distinzione di piccoli dettagli riconducibili all’una o all’altro, da riconoscere in una nuova creazione è simile all’assortimento indipendente dei cromosomi nei gameti. Si attua un processo di mescolanza tale da portare all’annullamento del valore individuale del segno e a una riduzione ai minimi termini del linguaggio, così da non permettere più una netta distinzione tra chi fa ‘cosa’ e ‘dove’. Accade così nell’arte come nella vita.
Per collaborare ad uno stesso lavoro non è necessario conoscersi, siamo natura, dentro di noi c’è la chiave trascendentale che sblocca quel meccanismo di ricombinazione, che a noi sembra casuale, ma che non lo è. È così e basta.
Che valore date al processo creativo? Condividete l’idea di Harold Rosenberg (colui che ha coniato il termine Action Painting) che vedeva nella tela soprattutto un supporto su cui fissare l’esperienza e lo stato emotivo dell’artista?
L’azione della creazione è già un’opera in sé, l’oggetto che ne deriva è la prova di ciò che è avvenuto e può essere di nuovo utilizzato per un successivo percorso creativo.
Dopo gli studi all’Accademia di Brera, avete vissuto e lavorato a lungo in Polonia. Quali sono le principali differenze tra l’Italia e questo paese dell’Europa Centrale, riguardo allo scenario artistico contemporaneo?
In Polonia esiste molta centralizzazione delle culture e molto interesse per il panorama internazionale, in Italia persiste molta dispersione del sapere e una forte tendenza alla conservazione.
Tra i progetti che hanno inaugurato il vostro sodalizio artistico c’è sicuramente LOOP che, a partire dal 2015, si è sviluppato lungo diverse tappe europee, da Berlino a Roma, al Museo Nazionale di Arte Contemporanea M.A.C.R.O per proseguire in Svezia, Zagabria, Madrid, Vilnius, Budapest. È stato girato un film —credo— su questo viaggio. Cosa potete raccontarci di questo progetto itinerante?
LOOP è un opera d’ arte basata sull’idea di relazione, e sulla possibilità di esprimersi attraverso una complessa e articolata totalità di livelli di forma e modalità comunicative. LOOP è un’opera fondata sull’azione, costitutivamente connessa a un’esperienza comunicativa totale. Vive e si manifesta innanzitutto nel suo accadere, nel suo essere ‘evento’, nel suo prendere corpo e significato all’interno di uno spazio, insieme reale e immaginativo, dato dall’incontro. Il ruolo che noi ricopriamo all’interno di questo modo di operare è di mediatori e creatori. Siamo ideatori di strutture concrete, dotate di una precisa estetica e funzionalità, ma siamo allo stesso tempo elaboratori di quelle strutture. La realtà stessa con cui interagiamo ci permette di trovare, in essa stessa, la soluzione per una continuità.
La creazione artistica vissuta come esperienza totalizzante e onnicomprensiva si manifesta compiutamente nella scelta del diario come medium comunicativo. Il racconto autobiografico è per noi una necessità interiore, ma al contempo uno strumento per svelare allo sguardo la propria nudità esistenziale. In questo senso il diario non è più una semplice espressione intima, ma diviene un vero e proprio medium espressivo. L’unione di più esperienze genera un racconto autobiografico, che raccoglie il vissuto quotidiano nei minimi dettagli e costituisce anche il luogo in cui lo spettatore è costretto a confrontarsi. In questo racconto di creazione i tratti insignificanti della vita acquistano la loro significanza nell’atto ostensivo, quindi anche il pubblico crea l’opera, ne modifica il significato e vi prende parte. La creazione artistica nasce dunque dalla realtà quotidiana con l’intento di plasmarla, modificandola, rileggendola e invitando a osservarla.
La catalogazione e la serialità sono l’ossessivo filo conduttore di questo progetto. Tuttora non esiste un film o un libro che raccolga il materiale che abbiamo accumulato e conservato in un archivio. Il progetto è in fieri e si manifesta in una condizione: quella di essere noi stessi media, veicolo di immagini. Siamo veicolo attivo di informazione. Tuttavia, esiste un video conservato nell’archivio video del Museo Nazionale di Arte Contemporanea M.A.C.R.O di Roma che illustra l’azione avvenuta all’ interno del museo.
L’artista Paweł Althamer (con il quale avete collaborato durante il vostro soggiorno in Polonia) con il progetto ‘Common Space—Private Space’ ha sperimentato l’opera d’arte come esito di una complessa comunicazione non verbale tra artisti, in cui è ‘neutralizzata’ la soggettività. Per citare le sue parole, Althamer ha descritto così il progetto: “Ciascuno dei partecipanti aveva a sua disposizione “uno spazio proprio” […], dove riprodurre elementi del proprio linguaggio visivo, e lo “spazio comune” aperto a tutti, dove poter condurre dialoghi simultanei con gli altri partecipanti. Il tutto senza usare parole.” In che misura l’incontro con Althamer ha influito sulla vostra ricerca artistica?
A Varsavia siamo arrivati come pittori studiando in Accademia di Belle Arti, abbiamo lavorato come scultori alla realizzazione di una scultura in bronzo intitolata MIESZCZANIE Z BRÓDNA, ora nella collezione del MSN, Museo d’ Arte Moderna di Varsavia, oggi, installata al Parco delle Sculture di Bródno, e ce ne siamo andati come artisti. Abbiamo imparato a lavorare uno dei materiali più duri e resistenti: noi stessi.
Praticando piccole incisioni in una memoria interna, primordiale e genetica, si arriva allo spirito racchiuso al suo interno. Permettere alla luce che è in noi di uscire da questo involucro durissimo è un atto che va oltre qualsiasi concezione spazio-temporale. Lo spazio non esiste e il tempo non va misurato: esiste solo la luce.
In Polonia avete collaborato anche con il gruppo Nowolipie, collettivo artistico di Varsavia, fondato dallo stesso Paweł Althamer che propone laboratori artistici tra persone disabili e non. Cosa potete raccontarci di questa esperienza?
Con il gruppo abbiamo imparato a capire cos’è l’intelligenza e a usarla. Pensavamo che l’intelligenza fosse la capacità di utilizzare al meglio gli strumenti a nostra disposizione, tutto ciò che serve per una tecnica eccellente e uno stile proprio. Quindi, tutto collegato a un aspetto motorio, sapersi muovere al meglio e poi utilizzare il mondo circostante per i nostri scopi. Ma questa visione si è rivelata ristretta e limitante, per certi aspetti. Noi ci muoviamo, ma non con l’intelligenza. Muoversi spesso non risolve i problemi serve solo a evitarli o ad andare verso una situazione migliore.
In poche parole: per produrre segni e comunicare noi ci serviamo del movimento, tutto si esplica attraverso il movimento, anche la ricerca di soluzioni dei problemi espressivi. Con il gruppo Nowolipie, abbiamo visto e imparato che non tutti possono farlo, a volte questo limite è manifesto, per esempio, nelle persone malate di sclerosi multipla, a volte è celato, come accade per alcune patologie neurologiche o psicologiche. Noi eravamo ciechi riguardo a queste condizioni, credevamo non fosse possibile che queste persone potessero avere capacità simili alle nostre.
Un’organizzazione centralizzata porta a una risposta veloce, la cosa più importante è saper agire nel minor tempo possibile. Così siamo stati educati a dover rispondere essenzialmente a questa unica necessità: farlo e farlo in fretta. Ma fuori da questa prerogativa, la nostra educazione-organizzazione si dimostrava un fallimento totale, debole e fragile. Se venisse meno la capacità d’azione o se fosse limitata, come fare a sostenere un’organizzazione di questo tipo?
L’individualismo sembrava la scelta sbagliata, allora abbiamo imparato a condividere le funzioni. In un gruppo di persone tutti hanno le stesse funzioni senza che alcuno sia più specializzato rispetto a un altro in singole mansioni. L’estrema diffusione delle competenze porta inevitabilmente a una minore efficienza, ma anche a una estrema capacità di resistenza.
In un gruppo possono venir meno dei componenti ma continuerà a esistere e i membri che seguiranno altre strade non smetteranno di farne parte, anzi saranno i portavoce delle idee del gruppo stesso, il quale crescerà. Il Gruppo è un’ organizzazione complessa e intelligente, un modello di vita e di produzione artistica, comprensibile solo alla luce della ragione e della conoscenza.
La limitazione motoria porta a essere incredibilmente più sensibili rispetto al mondo che ci circonda, per potersi esprimere prima di tutto bisogna affinare la percezione, cosa essenziale per un artista, in questo senso, abbiamo imparato a usare l’intelligenza che è la capacità di percepire e risolvere problemi.
La serie I VULCANI, è quella che più esemplifica questo vostro metodo di lavoro interattivo e dialogico. Il vulcano si fa metafora dell’amore, dà origine infatti, a indomabili energie creatrici. Questi lavori si fondano su due capisaldi: relazione e cooperazione. Qual è la genesi di questa serie?
Ogni giorno a noi tutti devono spuntare ali. Nuove ali per volare a grandi altezze. Ma le nuove ali possono spuntare solo se ci innalziamo, ci espandiamo, cresciamo e lottiamo di continuo. Questo implica che ogni giorno dobbiamo mutare, dobbiamo sbarazzarci di tutto ciò che ci impaccia, ci vincola, ci trattiene, non ci dà assoluta libertà, che ci tiene legati alle illusioni della vita. Questo è l’unico modo di conoscere, di avere nuove energie e nuove ali con cui spiccare il volo.
Con la serie I VULCANI, vogliamo comunicare l’ importanza di incrementare l’interesse per ogni aspetto della vita, perché senza interesse non si può far nulla. Noi dobbiamo interessarci a tutte le cose, perché tutto intorno a noi accresce il nostro essere, il desiderio di trovare, la forza di conseguire, la propensione a mettere da parte ogni cosa per raggiungere il “definitivo”. La nostra guida deve essere l’entusiasmo che ci condurrà all’intuizione.
L’intuizione è comune a tutti. Appartiene all’umanità e non a particolari individui. È necessario avere forti sentimenti, siano essi di intensa felicità o di autentica amorevolezza. Sempre più vogliamo risvegliare in entrambi questo desiderio di vedere insieme le cose celate ai nostri stessi occhi. Solo vedendo insieme, sentendo insieme, si può pensare creativamente. Cerchiamo di dimenticare per quanto sia possibile il nostro piccolo io per sentire che siamo tutti ‘uno’. Nel nostro caso, ciascuno pensa di essere parte dell’altro e l’altro deve essere parte di ciascuno. La scelta è perdere se stessi nel mondo dell’altro oppure conservare la propria solitudine per sempre.
Artisti contemporanei che hanno segnato il vostro percorso?
Vogliamo non solo confermare il nostro apprezzamento, ma soprattutto ringraziare gli artisti che ci hanno aiutato e che, a volte, sono rimasti cari amici. Iniziando da Wojciech Cieśniewski (@w_ciesniewski), bravissimo pittore e amante della pittura italiana, Gabriele Di Matteo (@gabriele_dimatteo) che è stato anche nostro insegnante (e tra gli ideatori della rivista E il topo, Ndr) Donatella Bernardi con cui abbiamo avuto il piacere di indagare le distanze esistenti tra gli studenti del Kungliga Konsthogskolan Royal Institute of Art di Stoccolma in un’ installazione collettiva, Zsolt Asztalos (@zsolt_asztalos_artist), con il quale siamo diventati attori in una performance nei pressi della Danubious Fountain di Budapest, Matthieu Laurette (@matthieulaurette) che ha collaborato con noi in LOOP, Ryosuke Cohen per averci invitato a partecipare a Brain Cell Project e molti mail Artist come Anna Banana, Buz Blurr (@buzblurr), Chuch Welch (CrackerJack Kid), Clemente Padin, Franco Ballabeni (@francoballabeni), Giovanni e Renata Strada (@giovanni_strada; @renatastrada), Lutz Wohlrab, Keith Bates, Vittore Baroni, Marcello Diotallevi, Fernanda Fedi e Gino Gini, Bruno Chiarlone, Emilio Morandi e John M. Bennett.