Chiara Scodeller / Artista / Intervista /

Chiara Scodeller / Arti figurative / Arti Visive / Interviste / I ruoli maschile e femminile tradizionali sono in crisi, almeno nel nostro francobollo di mondo. Alcuni punti di vista più reazionari guardano con nostalgia a quel «sistema armonico di relazione tra i sessi» dove vigeva la Legge del Padre, di contro alcune frange del femminismo radicale hanno sviluppato una forma di misandria esasperata (La nostra Bice Ravasi ha scritto a proposito di Valerie Solanas e del suo SCUM Manifesto).  

E non è un caso se i gender studies stanno prendendo sempre più piede, specie nel mondo anglosassone. Basti pensare a figure come Griselda Pollock, Elizabeth Grosz o Judith Butler e anche per l’arte si tratta ormai di un hot topic issue. Possiamo dire che, oggigiorno, sono tematiche addirittura di tendenza, ma già nella prima metà del ventesimo secolo, artisti come Claude Cahun e Ana Mendieta hanno realizzato autoritratti che sottolineano la fluidità di genere, rifiutando di conformarsi a modelli strettamente maschili o femminili. 

Chiara Scodeller, artista che adopera fotografia e video, ha scelto di affrontare la questione da un’angolatura originale, l’ermafroditismo di alcune piante in diretta correlazione con l’identità di genere degli esseri umani. Un tentativo di uscire da logiche semplicistiche, sottolineando quanto la Natura sia variabile, complessa e refrattaria agli incasellamenti. Questa sua ricerca si è oggettivata nella performance Hermaphrodites with Attitude

Oltre al tema dell’identità di genere, Scodeller ha affrontato il rapporto uomo-macchina, sviluppato nel cortometraggio UNIVERSAL. Anche qui ibridando o interconnettendo due poli. Dal film non traspare una posizione luddista, fedele alla consueta narrazione distopica, al contrario la tecnologia è estetizzata e gli uomini vi appaiono perfettamente integrati, incorporati, vivono nel ventre della macchina.   

Il terzo filone della sua ricerca artistica è l’archivio fotografico, numerosi artisti stanno riscoprendo questa pratica, , forse alla ricerca di punti di vista inediti sul contemporaneo, come suggerito dal saggio An Archival Impulse di Hal Foster.  

Insomma, la sua è una pratica artistica ampia e variegata, dove però è facile riconoscere un fil rouge: il superamento di logiche e schemi che tendono a costringere la realtà in definizioni precise quanto incomplete. Dopotutto, nel suo Manifesto Cyborg, Donna Haraway critica le posizioni del femminismo tradizionale, sostituendo a uno sguardo sulla differenza, un approccio che si concentri invece sulle affinità. La figura del cyborg diventa, quindi, l’emblema del superamento dei limiti della prospettiva binaria. Ed è quanto sembra suggerire anche Chiara Scodeller con i suoi lavori all’insegna dell’ibridazione.

In copertina:

A PORTRAIT OF ITALIA, Chiara Scodeller, solo show, Iperspazio, 2024, ITALIA, courtesy of the artist

   

A PORTRAIT OF ITALIA, Chiara Scodeller, group exhibition, LAGO FILM FEST, 2024, courtesy of the artist
A PORTRAIT OF ITALIA, Chiara Scodeller, group exhibition, LAGO FILM FEST, 2024, courtesy of the artist
Quando e perché ti sei avvicinata all’arte?  

Non c’è stato un momento preciso, ho sempre avuto questa predisposizione. A mia madre dicevo che da grande avrei voluto fare la scuola per imparare a disegnare, essendo il mezzo da me più praticato da bambina e, crescendo, non ho mai avuto dubbi su cosa volessi fare. Ho frequentato il liceo artistico con indirizzo Audiovisivo e Multimediale a Udine, poi sono arrivata a Milano dove ho proseguito con l’università scegliendo l’indirizzo Pittura e Arti Visive e terminando con un master in Post Produzione Video. All’inizio non avevo ben chiaro che figura volessi essere nell’ambito del mondo visuale, ne ho preso piena coscienza al terzo anno di università, da quel momento ho deciso che volevo fare l’artista perché avevo un bisogno urgente di raccontare, donare qualcosa agli altri.  

Come definiresti la tua pratica?  

Lavoro con il video e la fotografia analogica, principalmente. Con la fotografia analogica ho una relazione duratura ormai da 11 anni.  Negli anni del liceo mi assentavo dalle altre lezioni per sgattaiolare in camera oscura e lavorare. Era un po’ il mio luogo sicuro, dove c’ero solo io e la pellicola, mi sentivo una piccola chimica e la cosa mi affascinava.  La fotografia digitale per quanto sia pratica per me non è abbastanza sexy, non c’è lo stesso rapporto viscerale, passionale con l’immagine.  

Confrontandosi con l’analogico si seguono tutti i passaggi, dallo sviluppo alla stampa ed è normale essere completamente immersi tra le immagini, tra le storie: è un momento di riflessione ma anche di contemplazione e molte volte anche di delusione, non sempre si ottiene il risultato sperato. Non voglio essere ipocrita, la fotografia digitale ha i suoi vantaggi e anche io me ne servo, semplicemente non è la mia cup of tea.  

Al video mi sono dedicata recentemente, nel 2021/22. Ho cominciato ad usare questo medium soprattutto da quando ho conosciuto alcuni dei miei ex docenti in Naba, come i fratelli De Serio e Yuri Ancarani (@yuri_ancarani), che mi hanno dato gli strumenti adatti per poter riuscire ad elaborare le mie idee a fotogrammi in sequenza, così è nato Universal.  

Cosa pensi della scena artistica milanese?   

Penso che in questi ultimi tempi si stia rivitalizzando. Ci sono più opportunità per i giovani artisti, non solo in contesti istituzionali. C’è forse più attenzione. Esistono molte realtà indipendenti che ospitano mostre o performance e che consentono il confronto con il pubblico, di ricevere feedback, di comprendere se le cose che stai facendo funzionano o se hanno bisogno di una revisione.  

Hai stretto collaborazioni con altri artisti?  

A maggio dell’anno scorso, presso il BIM, ho portato la performance Hermaphrodites with Attitude in collaborazione con il duo di musica elettronica Spyna (QUI un’intervista di A Revolt a Spyna).  Maple Juice e Shara li conoscevo già da tempo e quando mi è stata proposta questa possibilità, ho chiesto loro se volevano darmi una mano. Sapevo che avevano dimestichezza con questo linguaggio più performativo, essendo per me la prima volta che utilizzavo quel medium.   

Insieme a Clinica Botanica @clinicabotanica, con Andrea Sarli ho allestito il luogo della performance, pensandola come una piccola giungla.  

A PORTRAIT OF ITALIA, Chiara Scodeller, solo show, Iperspazio, 2024, ITALIA, courtesy of the artist
A PORTRAIT OF ITALIA, Chiara Scodeller, solo show, Iperspazio, 2024, ITALIA, courtesy of the artist
Puoi dirci qualcosa di più su Hermaphrodites with Attitude? 

Parte dalla mia ricerca teorica: ERBARIO DI GENERE – I fiori ermafroditi come concetto di genere nell’antropocene. Volevo attirare più persone possibili e la performance mi dava questa possibilità, tolti i grandi paroloni e andando al cuore della ricerca, ho voluto mostrare a tutti il potenziale delle piante. Tramite dei sensori, utilizzando uno strumento midi, ho estrapolato le impercettibili vibrazioni con cui ogni pianta comunica componendo una vera e propria sinfonia. La performance si ispira all’opera di Eugenio Ampudia (@eugenioampudia) Concierto para el Bioceno in occasione della riapertura del Gran Teatre del Liceu di Barcellona, dopo la pandemia. La stagione del 2020/21 si è aperta con un quartetto d’archi al suono di Crisantemi di Giacomo Puccini e una platea priva di esseri umani, ma affollata da 1292 piante. Da questo spunto ho maturato il desiderio di ideare una performance incentrata sugli studi di genere usando come mezzo principale la sfera vegetale.  

La varietà di fiori che ho selezionato può nascere o diventare ermafrodito, un fenomeno comune nel regno vegetale e in certi animali come il pesce pagliaccio. Il termine ermafrodito è appropriato per le piante, perché possono possedere entrambi i sessi e possono autoimpollinarsi, meno per gli esseri umani. Negli anni Novanta gli attivisti del gruppo Intersex Society of North America ha voluto comunque rivendicare questo nome con il motto “Hermaphrodites with Attitude”, da cui prende il titolo la mia performance che mira a rivendicare la libertà di scelta della propria identità sessuale. Un invito a riflettere su quanto il genere intersex sia comune in innumerevoli specie della biosfera.   

E tornando su ERBARIO DI GENERE come si è sviluppata la tua ricerca? 

È partito tutto da FUORI!, Fronte rivoluzionario omosessuale italiano, una rivista pubblicata dal 1971 al 1982.   Ogni numero ospitava le vignette di Stefania Sala, una di queste rappresentava la pratolina come simbolo di liberazione sessuale e il cactus come Stato opprimente.  Mi domandavo perché avesse scelto proprio queste piante e ho scoperto che entrambe erano ermafrodite, in grado, cioè, di autoimpollinarsi. Posso dire che dalle vignette di Stefania Sala è partita la mia ricerca in concreto.  Elvira Vannini (@hotpotatoes.it), la mia relatrice di tesi, un giorno mi pone una domanda: «Ci sarà un modo per collegare le piante ermafrodite agli studi di genere?» Riflettendoci a lungo, e approfondendo i miei studi, ho trovato una prima analogia tra la forma dell’organo genitale femminile e maschile degli esseri umani e dei fiori. Inoltre, una pianta di sesso maschile può avere fiori ermafroditi o essere la pianta stessa ermafrodita e così via… Nella genetica non c’è mai una logica rigida, binaria, le sfumature possibili sono infinite.  

Tempo dopo mi sono imbattuta in un’altra vignetta, questa volta di xkcd.com, che rappresentava la Bee Orchid (Vesparia), una pianta appartenente alla famiglia delle Orchidaceae. La vignetta, che Donna Haraway ha inserito in ChthuluceneSopravvivere su un pianeta infetto, mostra due ragazzi che si domandano perché l’orchidea assomigli a un’ape. L’Ophrys Apifera ha perso il suo impollinatore e ha trovato un modo per sopravvivere, mutando la sua genetica. Si è aggiunta il sesso mancante in modo da potersi autoimpollinare.  Questa peculiarità di cambiare sesso è caratteristica delle piante, di alcuni invertrebrati o animali come il cavalluccio marino e il pesce pagliaccio.   

Un’altra forte ispirazione  è il film Arianna di Carlo Lavagna che racconta la storia di una ragazza intersessuale. Dopo il parto il medico chiede alla famiglia quale sesso attribuire al neonat*. La ragazza cresce, ha le sue prime esperienze sessuali e sente che c’è qualcosa che non va, perché non riesce a provare piacere e si domanda perché abbia una cicatrice sul pube. Arianna non si sentiva a suo agio nel suo corpo, così, si confronta con i suoi genitori che le confessano la verità. Arianna comincia a pensare perché non le sia stata offerta la possibilità di scegliere.   

A PORTRAIT OF ITALIA, Chiara Scodeller, solo show, Iperspazio, 2024, ITALIA, courtesy of the artist
A PORTRAIT OF ITALIA, Chiara Scodeller, solo show, Iperspazio, 2024, ITALIA, courtesy of the artist
Che parallelismo riscontri tra la capacità di autoimpollinazione di alcuni fiori con la questione di genere?   

Ovviamente l’essere umano non si può autoriprodurre, però le persone intersessuali sono una percentuale non così irrilevante, secondo Anne Fausto-Sterling, la percentuale si aggira intorno all’1,7% (secondo studi più recenti, ricalibrando la definizione, intorno al 0.018%). È una condizione naturale. Personalmente ritengo che non si dovrebbe scegliere d’imperio il sesso del nascituro che presenta questa caratteristica solo per conformarsi a una società fondata su termini binari. La genetica è più complessa della società, se ci sottoponessimo a un esame del DNA, riscontreremmo una quantità di cromosomi maschili o femminili apparentemente non coerente con l’aspetto esteriore. Questi confini che l’uomo pone non esistono. Non c’è niente, nel mondo organico, di così perfettamente scisso.   

L’identità di genere per alcuni artisti è una tendenza da cavalcare, per altri è una forma di autentico attivismo, il tuo interesse per la materia da cosa deriva?  

Arrivando nella grande città, sono stata letteralmente bombardata da nuovi stimoli. I primi mesi mi portavo ancora appresso quella naivetè della provincia, poi mi sono imbattuta nella parola ermafrodito e da lì ho incominciato la mia ricerca sugli studi di genere, che nel 2022, è diventata la mia tesi di laurea.  

So bene che c’è già un’ampia letteratura su questi argomenti, per questo la mia intenzione è stata da subito quella di cercare una chiave inedita. Volevo dare un valore… come dire… scientifico alla mia ricerca. Era anche un modo per validare le mie tesi. Volevo conferire una base concreta alla mia ricerca, non volevo partire da una posizione ideologica, da un pregiudizio o da una credenza.  

Cosa pensi della Gender fluidity sbandierata dalle nuove generazioni?  

Ho una sorella di diciotto anni, rientra esattamente nel target a cui ti riferisci. Vive ancora in Friuli e non credo abbia una piena consapevolezza della questione. Non possiede ancora tutti gli strumenti necessari (come non li possedevo io alla sua età). Credo che la maggioranza dei giovanissimi abbia una prospettiva più conservatrice di quanto si creda. Tutto quello che esula dai modelli eteronormativi viene percepito come fuori standard. Certo, se ne sente parlare tanto sui media, su internet, ma manca una vera educazione sull’argomento. Credo sia più che altro una tematica confinata ai social tra supporter e hater. D’altronde l’ultima generazione vive molto la sfera virtuale.  

Cambiando argomento, oltre ai gender studies, un altro fronte della tua ricerca artistica è rappresentato dall’archivio fotografico, mi riferisco alle tue installazioni Italia e Portis. Cosa ti attrae di questo dispositivo organizzativo di memorie?  

È vero, è un interesse che sta prendendo molto piede. Credo che la ragione sia il bisogno di trovare un nuovo punto di vista sul contemporaneo. C’è bisogno di radici, di una base solida per affrontare le sfide odierne. Ai giovani artisti mancano dei punti di riferimento. Nell’Italia degli anni ‘70, ‘80 c’erano correnti, scuole, maestri. Oggi, probabilmente vantiamo un numero esponenzialmente maggiore di artisti, eppure è tutto parcellizzato. Forse il problema è proprio che siamo troppi, e quando c’è troppa scelta, scegliere è quasi impossibile.   

Si dovrebbe partire dal passato e conoscere più a fondo la tradizione per poter creare qualcosa di nuovo. Ho sempre avuto questa fascinazione per l’archivistica e in generale per la storia.   

Puoi dirci qualcosa di più sulle tue installazioni d’archivio? 

Ricordo bene quando ho trovato al mercato una scatola piena di diapositive, ne sono stata attratta  subito, come un magnete con la calamita, a seguito di questa fortuita scoperta  ho iniziato il mio lavoro: Italia.  L’installazione mappa il nostro Paese dagli anni Sessanta agli anni Ottanta attraverso le fotografie di un chimico milanese dell’ANSCO.   

Portis, invece, è costituito dai negativi, scattati da me nel 2022, in uno dei dieci paesi fantasma del Friuli, devastati dal terremoto del 1976.  

Da una parte la monumentalità, il sapere pubblico (Italia), dall’altra la sfera più intima (Portis). Possiamo dire che i due archivi restituiscono una visione a 360 gradi, dall’interno e dall’esterno. Comunicano tra loro e raccontano alcuni momenti storici del nostro Paese.  A Portrait of Italia, la mia prima personale del febbraio 2024, è stata l’occasione per presentare questi due lavori insieme al mio film Universal. Il fil rouge della mostra erano le diverse tipologie di luoghi: lo spazio pubblico con i suoi monumenti; lo spazio intimo dei ricordi domestici; e infine lo spazio industriale, all’apparenza freddo, controverso, ma poetico. 

A PORTRAIT OF ITALIA, Chiara Scodeller, solo show, Iperspazio, 2024, un fotogramma di UNIVERSAL short
film, courtesy of the artist
A PORTRAIT OF ITALIA, solo show, Iperspazio, 2024, un fotogramma di UNIVERSAL short film, courtesy of the artist
Raccontaci di UNIVERSAL  

Universal è stato filmato in una fabbrica di mangimi, dove mio padre lavora come capo manutentore. Ricordo la me bambina di sei anni, che entra in questo spazio enorme, ricordo l’impressione di meraviglia, era tutto così emozionante! Non recepivo niente di negativo in quei macchinari, in quei cunicoli, era un mondo elettrizzante! Sedici anni più tardi mi è venuta voglia di tornarci, non avevo dimenticato le sensazioni che avevo sperimentato. Questa è stata la mia molla. È un luogo con una sua specifica poetica, con un’estetica di forte carattere. Ricordo che nel corso delle riprese stavo leggendo Cyberfilosofia di   Jean Baudrillard sul rapporto uomo-macchina e davanti ai miei occhi avevo una concreta manifestazione delle pagine che sfogliavo.  

E cosa hai scoperto di questo rapporto, realizzando il cortometraggio? 

Osservare gli operai all’interno del ventre della fabbrica, che trascorrono ore e ore, immersi nella luce artificiale di un intenso ocra, come in una dimensione parallela, un mondo che non è quello reale, ma piuttosto è un universo con le sue leggi.  Vedere il rapporto quasi simbiotico tra i lavoratori e questi grandi macchinari, in questo contesto del tutto asettico, angusto, metallico, è impressionante. Gli operai devono adattarsi alle esigenze della macchina. Quando si muovono tra i passaggi stretti, quando devono svolgere attività manutentiva, sono costretti ad adattare i loro movimenti alla macchina specifica con cui interagiscono. L’uomo si sente sempre al centro dell’universo, ma nell’universo della fabbrica è la macchina il centro. L’uomo è al suo servizio. Si deve prendere cura delle macchine. La scoperta più interessante, mi è arrivata in post produzione, quando rivedevo il materiale, sentivo un rumore strano di sottofondo, pensavo di aver registrato male in presa diretta e invece quel suono era reale. Quel ronzio costante e fastidioso, che l’essere umano non percepisce quando è nella fabbrica, si rivela a noi nel cortometraggio come terzo personaggio del film.  

Restando sul binomio uomo-macchina, e sul tuo interesse per le ibridazioni, qual è il tuo punto di vista riguardo ai cyborg?  

Il cyborg non è altro che un essere umano con degli impianti metallici, la nostra società è sempre stata abitata da cyborg, basti pensare alle protesi spesso realizzate con materiali metallici. In Chthulucene – Sopravvivere su un pianeta infetto, Haraway ci parla della comunità del compost, dove gli abitanti non hanno un genere dato e non sono del tutto umani. Non ci sono costrizioni sociali. L’autrice mette in luce le problematiche della nostra società, suggerisce di tornare ad avere un rapporto con-da-gli-altri, ritornando a pensare al rapporto con le altre specie, invece di adottare una visione prolife, che all’interno della sesta estinzione di massa, non è proprio il ragionamento corretto da assumere.

Quali sono i tuoi artisti di riferimento?  

Sophie Calle mi piace molto, soprattutto Le Regime Chromatique del 1997.   

Andres Serrano. Ho studiato a fondo la sua fotografia, in particolare la sua indagine artistica. A partire dalla serie The Morgue sui cadaveri conservati nell’obitorio di New York. In un’intervista ha affermato di essere rimasto colpito soprattutto da come il corpo muti nel post mortem, e questo dipende in gran parte dalle cause della morte. Lui, come è noto, è un artista abbastanza sovversivo, bast pensare agli scatti  Piss Christ o alla serie A History of Sex.   

Un libro e un film che hanno segnato il tuo percorso?  

Film me ne vengono in mente due: Carne tremula di Pedro Almodovar e Dogtooth di Yorgos Lanthimos. Del cineasta greco apprezzo soprattutto la raffinatezza dell’immagine, semplice ma di grande impatto. Racconta una realtà crudele, eppure veritiera, di Almodovar ammiro il trattamento della color correction nei suoi film e, ovviamente, il dramma spagnolo, senza scadere nella telenovela.    

I due libri che ho preso un po’ come manuali sono stati: La fotografia come arte contemporanea di Charlotte Cotton e L’invenzione del fotografico di Federica Muzzarelli.  


Bio  

Chiara Scodeller (San Vito al Tagliamento, Italia, 2000)  

Vive e lavora a Milano, si è laureata in Arti Visive presso NABA Milano e ha conseguito un Master in post produzione video in Cfp Bauer, sempre a Milano. Ricopre la figura di junior editor, fotografa e videomaker come attività principale. Nel campo dell’arte contemporanea lavora come artista e la sua ricerca si articola in due direzioni differenti: la prima focalizzata sugli studi di genere con ERBARIO DI GENERE – I fiori ermafroditi come concetto di genere nell’antropocene, esposto al PAV di Torino, arrivando a HERMAPHRODITES WITH ATTITUDE, performance sonora. La seconda riguarda l’interesse per l’archivio fotografico come in: Italia e Portis e l’interesse per il binomio uomo-macchina, oggetto del cortometraggio UNIVERSAL

Simon Gusman
Simon Gusman
Viaggiatore compulsivo. Per molti anni ha vissuto in Chiapas dove ha conosciuto il Subcomandante Marcos. Al momento vive a Granada.

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