Materia prima / Romanzo / Sergio Oricci / Intervista

Materia prima / Editoria / Narrativa / Interviste / L’ultimo romanzo di Sergio Oricci, edito da Transeuropa, è un’opera che attraverso la complessa psicologia del protagonista offre un tentativo di esplorazione dell’umano e del postumano. La storia di Sergio, quarantenne logorroico e in cerca di un’esperienza spirituale, si snoda tra l’impossibilità di trovare un senso nella vita borghese e la fuga verso una dimensione altra che lo condurrà in alcune comunità spirituali.

Articolato in tre parti, che mescolano narrazione in prima e terza persona con inserti metateatrali e pseudo-saggistici, questo romanzo offre uno sguardo sulla ricerca di identità e significato. Il viaggio di Sergio verso la terza comunità, dove si troverà circondato dai “sassi”, diviene un’esperienza di espansione, culminante in un epilogo narrato in prima persona plurale.

Nel romanzo, Oricci indaga il tema, non certo inedito, dell’identità, ma lo fa attraverso chiavi di lettura originali. Per esempio, tramite il racconto della radicale performance artistica di Roberto Cuoghi che ha sgretolato il proprio sé per entrare nei panni del padre, nell’aspetto, nel modo di esprimersi e di pensare. In una certa misura si è trasmutato nel suo stesso padre. Un loop genitore-generato che trascende i confini dell’edipismo per sfociare nell’abiogenesi.

E non c’è solo un riferimento a Cuoghi, nell’ordito di Materia prima ci sono citazioni d’arte, a cominciare da quella dell’artista Eglė Budvytytė, a documentare non solo un interesse dell’autore per l’arte contemporanea, ma una sua capacità di tradurre in letteratura processi di regolazione emotiva e dispositivi comunicativi propri di altri linguaggi.

In copertina: una foto di Oana Pughineanu-Oricci @seikopilgrim dell’opera Din Blinde Passager di Olafur Eliasson.

   

Materia prima / Romanzo / Sergio Oricci / Transeuropa Edizioni (2024) / Copertina
Materia prima / Romanzo / Sergio Oricci / Transeuropa Edizioni (2024) / Copertina
Come è nata l’idea di questo romanzo?

Il 23 aprile del 2013 ho creato un file word su cui ho scritto circa quindicimila caratteri. In quelle poche pagine c’era già molto di quello che poi sarebbe diventato Materia prima. C’erano una dea bambina, una comunità religiosa, un personaggio chiamato Io e uno degli arcangeli. All’epoca però mi sono accorto quasi subito di non avere gli strumenti per scrivere quel romanzo e infatti mi sono fermato. Di tanto in tanto ci ripensavo, e credo sia stato nel 2017, dopo aver visto l’opera Liminals di Jeremy Shaw, un falso documentario in cui si racconta la storia di una piccola comunità di persone che cerca di raggiungere nuovi stati di coscienza attraverso la danza, che ho ricominciato a ragionare attorno a quell’idea, per la quale poi sono riuscito a trovare una lingua e una struttura solo qualche anno più tardi. Quindi si può dire che l’idea alla base di Materia prima si compone di una lunghissima serie di riflessioni su alcuni temi (identità, fuga dalla vita borghese, prossimo passo evolutivo della specie) e su come questi temi, e con essi la storia, dovessero essere sviluppati da un punto di vista linguistico e strutturale. Una lunghissima serie di riflessioni, dicevo, durata più o meno dieci anni.

Vorresti scegliere un brano di Materia Prima che dia al lettore un codice interpretativo?

Di tanto in tanto ci abbandoniamo sulla sabbia, strisciamo nella nostra orizzontalità, proviamo a trovare un nostro ritmo, le nostre fasi. I microorganismi brulicano sulla pelle, i batteri proliferano. Ci incontriamo e passiamo del tempo a transire da una configurazione all’altra; esploriamo i corpi, usiamo le dita per cercare tra i capelli, ci divertiamo a spulciarci. Lo scontrarci è casuale ma inevitabile, incrociarci è invece l’unico modo possibile di muoversi in questo spazio vivo. È uno scambio, un corpo. Osserviamo tutto e da tutto ci facciamo osservare; traiamo insegnamento dalla comunità dei sassi, implementiamo i valori che sono propri della pietra: la pazienza, la stasi, la capacità di farsi piovere addosso e di farsi erodere dall’acqua e dai venti, la qualità di intrappolare organismi che un giorno saranno fossili, parte di noi, dentro di noi; attraversiamo milioni di anni di solitudine minerale. Ci lasciamo andare uno sull’altro o a terra, ci raggruppiamo come grappoli per poi separarci, siamo pesanti e intricati e poi di nuovo leggeri e semplici. La riproduzione è solo una questione genetica, ci penetriamo in modo distratto, un processo di scivolamento.

Materia prima / Romanzo / Sergio Oricci / Transeuropa Edizioni (2024) / ph. Oana Pughineanu-Oricci
Materia prima / Romanzo / Sergio Oricci / Transeuropa Edizioni (2024) / ph. Oana Pughineanu-Oricci @seikopilgrim
Hai definito Materia Prima un romanzo-installazione. Con questo binomio vuoi suggerire un meticciato, l’aspirazione cioè a una forma di arte ibrida e/o transmediale?

È stato definito così da qualcun altro, ma forse ho ripreso la definizione in qualche occasione, ed è certamente un modo interessante per descriverlo. Dal mio punto di vista, Materia prima è un romanzo che certamente si apre ad altre forme espressive – sono state per esempio realizzate quindici copie d’artista con copertine uniche di cui parlerò più avanti – ma resta un romanzo. Il testo in sé è composito e si muove tra diverse forme (dal metateatro allo pseudosaggio, dal monologo a un epilogo in prima persona plurale), ma questa sua costruzione complessa non è costituita da frammenti indipendenti e si comporta come un’architettura con una sua precisione geometrica ben definita, all’interno della quale si muovono storia e personaggi. Per rispondere in modo più diretto alla domanda, mi piacerebbe confrontarmi con forme d’arte ibride e transmediali in futuro, ma non credo di averlo fatto con Materia prima, che deve molto all’arte visuale ma che di fatto è solo un romanzo.

Nella tua produzione letteraria ti riallacci sempre all’arte contemporanea, vedi —per citare un esempio— Cereali al neon (effequ), che narra l’odissea di un artista. Cosa ti affascina di questa arena? E qual è il tuo rapporto con l’arte contemporanea?

L’arte contemporanea definisce una sorta di zona in cui riesco a trovare prospettive che da solo non riuscirei neanche a immaginare. Muovermi attraverso l’arte contemporanea, penso in particolare ai grandi spazi come l’Arsenale di Venezia durante una biennale o l’HangarBicocca di Milano, è per me un’esperienza altra, aliena nel senso migliore del termine. Il meccanismo è simile a quello che si attivava quando, da bambino, giocavo a un videogame o guardavo un film in cui mi sentivo particolarmente immerso.

L’arte contemporanea mi porta in una dimensione completamente estranea a quella quotidiana e in quella dimensione ragiono non solo di cose diverse, ma soprattutto in modi sempre nuovi. Nel tempo alcune opere che ho avuto la fortuna di vedere hanno cambiato radicalmente il mio immaginario. Penso alla prima volta che ho camminato tra i Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer (HangarBicocca, Milano), al momento in cui nel 2013, durante la Biennale di Venezia curata da Massimiliano Gioni, ho visto Belinda, gigantesca scultura-fossile di Roberto Cuoghi, a quando con mia madre mi sono ritrovato immerso nell’archeologia del futuro di Hiroshi Sugimoto, nella mostra intitolata Lost Human Genetic Archive (Palais de Tokyo, Parigi), o al giorno in cui sono entrato nella stanza in cui veniva proiettato il già citato video Liminals di Jeremy Shaw (Biennale di Venezia 2017, curata da Christine Macel) oppure alla camminata con mia moglie nel corridoio multicolore “Din blinde passager” di Olafur Eliasson (In Real life, Tate Modern, Londra).

Potrei andare avanti a lungo; l’arte contemporanea è la cosa che oggi riesce meglio di ogni altra, e spesso con più forza di quanto riesca a fare la letteratura, ad attivare una serie di reazioni emotive e di ragionamenti che altrimenti mi sarebbero preclusi.

Il romanzo cita in apertura l’artista lituana Eglė Budvytytė che nella sua opera più celebre, Songs from the Compost: mutating bodies, imploding stars (2020), affianca alla teoria dell’endosimbiosi (l’interazione e la cooperazione tra organismi) di Lynn Margulis, i testi della scrittrice di fantascienza Octavia E. Butler, per mettere in discussione la gerarchia antropocentrica a favore di una coesistenza simbiotica tra le specie. In che modo questa tematica ha ispirato il tuo lavoro?

Ecco, Songs from the Compost: mutating bodies, imploding stars è un’altra di quelle opere che hanno avuto un impatto enorme sul mio immaginario e sulla mia sensibilità. Era il 2022 e stavo percorrendo l’Arsenale di Venezia durante la Biennale curata da Cecilia Alemani, edizione che fino a quel momento avevo trovato piuttosto deludente. Avevo già scritto buona parte di Materia prima, mi mancava di fatto solo l’epilogo, che avevo già deciso di scrivere in prima persona plurale. Dopo aver finito di vedere il video credo di aver detto qualcosa come “adesso ho il finale”, perché il tema del graduale superamento dei confini tra le specie e tra i regni era esattamente quello a cui stavo pensando, ma il modo in cui Eglė Budvytytė lo declina nell’opera è riuscito a farmi capire cose che fino a quel momento stavo solo provando a intuire. Quindi ho scritto all’artista e, ben prima di avere un editore per il romanzo, le ho chiesto il permesso di usare una parte del suo testo in esergo. Lei ha risposto quasi subito ed è stata davvero gentile a permettermi di citarla.

Materia prima / Romanzo / Sergio Oricci / Transeuropa Edizioni (2024) / Copie d'artista
Materia prima / Romanzo / Sergio Oricci / Transeuropa Edizioni (2024) / Copie d’artista
Nel tuo romanzo, a partire dalle copertine d’artista, hai dato grande importanza a quello che, con un’espressione ormai obsoleta, era denominato regno minerale. Un mondo inorganico (almeno all’apparenza, l’ambra, per esempio è un composto organico) e inanimato. Quali sono le ragioni di questa scelta?

La casa editrice con cui ho pubblicato Materia prima, Transeuropa, ha una collana chiamata Transeuropa Lab che propone delle copertine essenziali, sulle quale ci sono solo il titolo dell’opera, il nome dell’autore e quello della casa editrice. Sotto di essi, niente illustrazioni o fotografie, soltanto un bellissimo spazio vuoto. Appena ho saputo che Materia prima sarebbe stato inserito in quella collana, ho subito pensato a una serie di copie d’artista, un certo numero di copertine su cui far intervenire degli artisti visuali che avrebbero potuto riempire quel vuoto per creare delle copie uniche. Serie che poi ho realizzato e che il 10 maggio sarà esposta a Livorno, nella sede dell’associazione Livorno Artistica. Una di queste copertine in effetti, realizzata da Leonardo Granchi (anche autore di musica elettronica analogica con il nome di Bad Girl), ritrae appunto un blocco di pietra, e ci sono anche altre possibili copertine d’artista con cristalli o rocce che devo ancora finire di stampare. Il contatto tra le creature, viventi e non viventi, è un tema centrale del romanzo.

Quando parlo di creature non viventi mi riferisco alle rocce, ai minerali, ma è già una definizione impropria. Creature inanimate forse è in effetti più corretto. Credo che il prossimo passo evolutivo non possa prescindere dalla presa di coscienza della possibilità che esista un pensiero collettivo che riguarda non solo noi e gli animali, ma anche il mondo vegetale e quello minerale. E nel romanzo il percorso spirituale del protagonista si conclude proprio con un’immersione in questa pluralità, che non ritengo essere una sorta di utopia ecologista ma solo uno dei futuri possibili, con tutto quello che di controverso e di violento può esistere in qualsiasi idea di futuro. Ma credo che sia dalle sensibilità più distanti, come la sensibilità della pietra per esempio, che possiamo davvero imparare a fare un passo avanti, ad adattarci meglio al disastro a cui andiamo incontro.

Materia prima si struttura in tre parti ben distinte che mescolano narrazione in prima e terza persona con inserti di carattere saggistico. Puoi dirci qualcosa di più su questo complesso lavoro di composizione testuale e sul successivo editing?

Ho costruito la struttura del romanzo su un paio di idee che consideravo importanti: volevo che la struttura sintattica delle singole frasi (di cui parlerò nella prossima risposta) trovasse una corrispondenza con la struttura generale del testo, e volevo che una corrispondenza ci fosse anche tra il contenuto, la storia raccontata, e la forma. Quindi i salti tra prima, terza – e prima plurale nell’epilogo – dovevano in qualche modo raccontare prima una crisi dell’identità e poi una sua dispersione, mentre gli inserti e la divisione in sezioni, oltre che a creare altri livelli di lettura, dovevano appunto funzionare da punti di contatto con la lingua del protagonista. Ho cercato in qualche modo di lavorare sul concetto di corrispondenza tra piccolo e grande, per arrivare a quella tra microscopico e macroscopico. Per quanto riguarda l’editing, fortunatamente il testo dal punto di vista della struttura è rimasto esattamente così come l’avevo scritto. In generale, credo poco nell’utilità di un processo di editing che vada a toccare il contenuto e l’organizzazione di un romanzo.

Una riflessione sul registro linguistico del romanzo, come lo hai messo a punto? Hai preso a modello altri autori?

La lingua doveva in qualche modo evolversi e cambiare insieme al protagonista e alle ambientazioni, senza che questo meccanismo sembrasse un pessimo espediente narrativo – anche perché dubito che esistano espedienti narrativi non pessimi. Ho quindi iniziato con delle costruzioni ipotattiche – per creare un senso di logorrea – per poi far andare in crisi, insieme all’uomo, anche la lingua stessa. Il protagonista a poco a poco perde i pezzi della sua sintassi fino a perdere del tutto la parola e a ritrovarla solo quando si trasforma in una lingua plurale. Mentre scrivevo non ho ragionato molto sui riferimenti, ma a posteriori posso citare David Foster Wallace, Jon Fosse, Karl Ove Knausgård (più per questioni strutturali che linguistiche), Vitaliano Trevisan, Alessandro Broggi, Gerda Blees, tra gli altri. Forse alcuni di questi autori li ho perfino letti dopo aver scritto Materia prima, ma non è importante capire se mi abbiano influenzato direttamente o se invece lo avrebbero fatto nel caso in cui li avessi letti prima. In qualche modo, qualcosa della loro voce è arrivato in questo testo.

Materia prima / Romanzo / Sergio Oricci / Transeuropa Edizioni (2024) / Copia d'artista
Materia prima / Romanzo / Sergio Oricci / Transeuropa Edizioni (2024) / Copia d’artista
In Materia prima hai citato la performance di Roberto Cuoghi, quando ancora studente all’Accademia di Brera decide di decide di trasformarsi in suo padre. Da Bauman a Giampaolo Lai, tanti studiosi hanno affrontato il tema della dis-identità nella società moderna, qual è la tua opinione?

Roberto Cuoghi è uno degli artisti contemporanei italiani che trovo più interessanti, e la performance di cui parli nella domanda di tanto in tanto torna in varie forme nelle cose che scrivo. Ne ho scritto infatti per la prima volta in un racconto intitolato Volevo essere Vincent Gallo (finito poi in una raccolta pubblicata con Pidgin Edizioni), racconto che in qualche modo mi ha permesso di conoscere personalmente Roberto Cuoghi. Sono riuscito a far arrivare quel testo a Cuoghi tramite Nicoletta De Rosa, un’artista visuale che lavora con lui; a loro il racconto è piaciuto e da lì abbiamo iniziato a scambiarci qualche messaggio. Anni dopo mi sono ritrovato a trascorrere alcune ore con loro nello studio di Milano; oltre a essere artisti incredibili sono anche persone accoglienti con cui è stato bellissimo condividere del tempo. Tornando alla domanda, credo che l’identità intesa come nucleo immutabile in cui riconoscersi sia un’idea tutta occidentale, un’idea che non sento particolarmente vicina.

Credo piuttosto in un’identità dispersa, collettiva, in cui siamo immersi. Qualcosa di inafferrabile che se ci definisce lo fa per appena un istante. La perdita dell’identità è quindi, in un certo senso, qualcosa di buono, di positivo, ma spesso per perdere l’identità, o il desiderio di avere un’identità, bisogna cercarne una, magari disperatamente e anche per tutta la vita, e attraversare una o più crisi, andare in confusione. Da questa ricerca non è facile uscire vivi ma non importa; in fondo non usciremo vivi da niente.

Un libro che ha segnato il tuo percorso letterario?

Tutto il teatro, di Sarah Kane (Einaudi, traduzione di Barbara Nativi). Se penso alle cose che ho scritto, la lettura di quel libro rappresenta certamente una frattura. C’è un prima e un dopo Sarah Kane.

Progetti per il futuro?

Sto scrivendo molto, quindi forse prima o poi pubblicherò ancora qualcosa di mio, ma trovare editori con un progetto interessante sta diventando, per me, sempre più difficile. Poi mi piacerebbe confrontarmi con la traduzione letteraria; anche se lavoro come traduttore tecnico non ho mai provato seriamente a tradurre letteratura. Ho anche qualche idea per la rivista che ho fondato e che curo, Clean, ma per adesso sono appunto solo idee e magari chiuderò la rivista prima di poterle realizzare.


Sergio Oricci (Fiesole, 1982) vive a Cluj-Napoca, in Romania, dove lavora come traduttore. Alcuni suoi testi sono apparsi su riviste come GAMMM, ‘tina, Nazione Indiana. Ha pubblicato la raccolta di racconti Volevo essere Vincent Gallo (Pidgin Edizioni) e i romanzi La casa viola (Castelvecchi) e Materia Prima (Transeuropa). Ha fondato la rivista Clean.

Paolo Cramer
Paolo Cramer
Nasce e vive a Torino. È psicanalista, storico e musicologo. Romantico ma solo nell'accezione del movimento sviluppatosi al termine del XVIII secolo in Germania. Ha una passione smodata per la tisana alla liquirizia.

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