Andrea Cosentino (Chieti, 1967) comico d’avanguardia e clown nichilista / Arti Performative / Teatro / Rassegna: Fuoriscena / è un drammaturgo, regista e attore che sfugge alle definizioni. Alcuni l’hanno incasellato come esponente del Teatro di Narrazione in compagnia dei soliti noti Celestini, Perrotta, Enia ecc., altri l’hanno accostato alla cosidetta non scuola romana, secondo la definizione di Nico Garrone, che, tra gli altri, dovrebbe annoverare Timpano, Tagliarini, Civica ecc. Ma il teatro di Cosentino è così peculiare da essere difficilmente assegnabile a un genere e persino a una non scuola, con quel rimestio di cabaret televisivo e grande tradizione clownerie à la Jacques Lecoq, di anti-narrazione e di linguaggi fatti a brandelli e ricuciti su misura.
Persino la giuria del premio UBU, non sapendo come attribuire un giusto riconoscimento al suo lavoro trentennale, si è vista costretta a conferirgli un premio “speciale”.
Senza timore di incorrere in errore, si può affermare che Andrea Cosentino è anzitutto un innovatore, forse per lui sarebbe il caso di rispolverare una parola demodé, novecentesca addirittura, ma che ritengo gli calzi alla perfezione: “avanguardista”. Aggettivo che lui stesso adopera per definirsi, oltre che clown nichilista, comico d’avanguardia.

E non a caso, Nicola Pasqualicchio nel sottolineare quanto il teatro di Cosentino sia allergico alle categorie, ha fatto riferimento a una «antitradizione solistica», assimilabile a quella degli attori comici del Novecento italiano. La sua opera, infatti, si distingue per un metodo creativo che prende forma direttamente sul palcoscenico, in un atto performativo che non mira a comunicare contenuti prefissati, bensì a vivere e interagire nel cuore del rapporto teatrale. Questo «teatro senza testo» è il risultato di un percorso formativo variegato e di un’autodidattica che valorizza l’oralità, l’improvvisazione e l’umorismo clownesco, pilastri della sua estetica. Seguendo la scia della tradizione dell’attore-autore, Cosentino rompe le convenzioni del teatro per indagare una «premeditazione del vuoto» (Cosentino, 2022), dove il rapporto diretto e autentico con il pubblico diventa un elemento fondante e insostituibile.
Per dare una misura della sua naturale tendenza all’innovazione, basti pensare al geniale format Telemomò (gli è valso il premio “speciale” UBU nel 2018, a cui si faceva riferimento prima) che, nelle sue parole, è: «la prima televisione a filiera corta, autarchica, ecologica e interattiva. È il disvelamento esilarante della povertà del linguaggio televisivo che viene mimato mediante la povertà materiale di un teatrino d’animazione artigianale. Un cavalletto sul quale è fissata la cornice bucata di un televisore, dentro cui si affacciano primi piani reali e bambole di plastica che “tribbolano” sbatacchiandosi, mezzibusti televisivi fatti di barbie senza gambe, e ancora parrucche, giocattoli, pezzi di corpo e brandelli di oggetti. Telemomò è anche il pulpito dal quale lanciare improbabili proclami politici e surreali analisi sociologiche».

Tra i suoi spettacoli meritano una menzione:
Antò le Momò (2000), una pièce fondata su di un bailamme caotico tra comico e tragico, con parodie di Artaud e di vecchie contadine, delle fiction televisive e della cretineria contemporanea (la strage di Erba);
L’Asino albino (2004) uno spettacolo che oscilla tra la comicità dei caratteristici personaggi di Cosentino e i toni drammatici di rievocazione della vita carceraria in uno degli istituti di detenzione più controversi della storia italiana, il carcere dell’Asinara, dove venivano segregati i brigatisti;
Angelica (2005) uno spettacolo che «parla della difficoltà di parlare della morte», mettendo in scena la recita della morte di Angelica, attrice di telenovele. Con questo spettacolo, per la prima volta, Cosentino si interessa del linguaggio televisivo;
Primi passi sulla luna (2010) dove «l’allunaggio della notte del 20 luglio del ’69 è anche l’evento mediatico attraverso il quale misurare l’inattingibilità del reale in un’epoca la cui verità coincide con il suo darsi in rappresentazione»;
Not here not now (2014), anti-apologia di una forma d’arte, la performance art, portata a un successo mai visto prima da Marina Abramović, di cui mette in scena una colossale parodia;
Kotekino Riff (2017) «un coito caotico di sketch interrotti, una roulette russa di gag sull’idiozia, un fluire sincopato di danze scomposte, monologhi surreali e musica»;
rim*bambimenti (2022) «una performance che parte come una conferenza sul tempo di un presunto scienziato, il suo doppio marionettistico affetto da Alzheimer e un assistente musicista, e scivola verso un concerto/spettacolo che, allineandosi alle concezioni di tempo e materia della fisica quantistica, smonta inevitabilmente ogni ordine e logica causale»;
Per finire con la sua ultima fatica, Trash Test (2025) (QUI un’intervista a Cosentino sullo spettacolo) un happening realizzato con l’ausilio di ChatGPT che sembra procedere sui consueti binari di scoperta, di sperimentazione (depurando la parola dalla sua accezione elitaria di intellettualismo ermetico), di gioco, insomma, di inquieta ricerca di nuove forme e linguaggi.

In tempi più recenti, Cosentino è tornato a calcare le scene anche come attore per altri, per esempio nel riuscito Uno spettacolo di fantascienza (2023) scritto e diretto da Liv Ferracchiati.
Andrea Cosentino rappresenta un esempio raro di artista capace di coniugare un profondo spirito critico con una comicità dissacrante e accessibile (di più, popolare). Ogni suo spettacolo è una celebrazione dell’imprevedibile e dell’assurdo, un viaggio che stimola sia il pensiero che la risata. Con la sua «premeditazione del vuoto», continua a riscrivere le regole del teatro, dimostrando che il palco, nonostante la sua progressiva marginalizzazione, è ancora un luogo ideale per sfidare i limiti e le certezze. In una parola una frontiera dell’avanguardia.