Luigi D’Eugenio “LGUDGN71R23D341C” / Arti figurative / Arti Visive / Interviste / Una mostra presso Ordet – Milano a cura di Roberto Cuoghi / Fare no-clipping nelle stanze sul retro di Luigi D’Eugenio
Il no-clipping, nel linguaggio dei videogame e della cultura di Internet, è un movimento così veloce da permettere a chi si sposta di attraversare un oggetto solido, per esempio una parete. Si tratta anche dell’unico modo per accedere alle stanze sul retro di una coscienza individuale e collettiva che continua a espandersi e a moltiplicarsi oltre ogni orizzonte visibile.
Luigi D’Eugenio, autore delle opere esposte nella mostra LGUDGN71R23D341C, curata da Roberto Cuoghi allo spazio Ordet di Milano, «vive e lavora in 25 metri quadrati. Sa di poter uscire ma gli basta saperlo». Così scrive Roberto Cuoghi, in questa occasione curatore ma da quasi trent’anni artista che fa della profondità dell’indagine uno dei tratti fondamentali della sua ricerca.
In copertina:
LGUDGN71R23D341C / Fotografia di Nicola Gnesi / Courtesy Luigi D’Eugenio e Ordet, Milano

Per LGUDGN71R23D341C Cuoghi sceglie 9 opere di un artista senza curriculum, senza mercato, che vive, si direbbe, isolato e che però pare avere una via d’uscita verso quelle stanze sul retro in cui le cose accadono e in cui il percepito e l’atteso non coincidono mai fino in fondo. Ed è così che ci si sente, percorrendo lo spazio Ordet e osservando i dipinti di Luigi D’Eugenio: davanti a qualcosa che sta succedendo ma non dovrebbe succedere e che ci inchioda al suolo ma al tempo stesso ci sfugge.
L’esperienza estetica si muove tra un weirdcore cupissimo e un retrodigitale che produce un senso di nostalgia per qualcosa che non abbiamo vissuto e che probabilmente neanche vorremmo vivere, e che presto si traduce in inquietudine. Una ragazza ci fissa inespressiva eppure intensissima, una camera a infrarossi inquadra un cervo dagli occhi luminosi, in una stanza verde qualcuno giace al suolo – sembra essere appena stato colpito – circondato da uomini mascherati, ballerine di lap dance e presenze. Una coppia fa sesso mentre viene ripresa da una telecamera di sorveglianza. Guardiamo dentro le stanze sul retro fino a fermarci di fronte a quello che ha tutto l’aspetto di uno schema per punto croce, e lì cerchiamo di individuare una chiave, qualcosa che possa aiutarci a decrittare il codice. Ma LGUDGN71R23D341C è una mostra misteriosa e indecifrabile e il suo mistero non ha bisogno di essere svelato.

Roberto Cuoghi ha gentilmente risposto ad alcune domande su LGUDGN71R23D341C.
Quando per la prima volta ho letto della mostra, sono stato subito colpito dal titolo LGUDGN71R23D341C, principalmente per due motivi: sembra un codice fiscale, cosa che potrebbe far pensare a un discorso sull’identità, e che in un certo senso mette una distanza tra chi ha realizzato le opere e chi le ha portate alla luce. E poi il fatto che sia un codice fiscale “inverso” in cui le prime tre lettere sono le lettere del nome e non del cognome; si tratta dunque di una stringa alfanumerica che ha l’aspetto di un codice fiscale ma che di fatto è qualcos’altro.
Quanto è importante l’identità dell’artista in relazione alle sue opere? Due opere identiche, una realizzata da Luigi D’Eugenio ed esposta nella mostra LGUDGN71R23D341C e l’altra realizzata da D’Eugenio Luigi, esposta nella mostra DGNLGU71R23D341C, sono la stessa opera?
Direi proprio di sì. L’approssimazione di chi guarda incontra i problemi dell’autore solo occasionalmente, ma restano coincidenze. Facci caso, hai organizzato la domanda proponendo una soluzione allestitiva già orientata a quel tipo di coincidenze, ti sei voluto allineare perché il consiglio è sempre di mirare lì, lo chiamano “a livello di comunicazione”. A livello di codice fiscale invece, mi vergognavo a chiederglielo, allora ho trascritto i suoi dati su un sito che deduce i codici fiscali e l’algoritmo deve aver confuso cognome e nome. È meno pericoloso che mettersi nelle mani del pilota automatico.
Nel testo che presenta la mostra leggo che Luigi D’Eugenio «dipinge come un fax», srotolando il tessuto dal basso verso l’alto dopo aver saturato la trama della tela (stoffe tipo lenzuola) con una pellicola di plastica idrosolubile. Il risultato è un’immagine che ha l’aspetto di qualcosa che l’occhio riconosce come digitale o retrodigitale e che, grazie anche alle brevi stringhe di testo che D’Eugenio inserisce, richiama l’immaginario weirdcore: non c’è sempre un pericolo reale, anche se in almeno due casi ne ho percepito uno, ma certamente c’è qualcosa che non va, un elemento fuori posto che ci fa rabbrividire. Cosa pensi del rapporto tra processi di lavorazione e contenuto delle opere, del modo in cui questi due aspetti comunicano, sia in questo caso specifico che altrove? E credi che ci sia in effetti una qualche differenza tra l’oggetto e quello che l’oggetto racconta?
I contenitori andavano chiusi e i contenuti sono evaporati. Infatti evitiamo il centro della questione. Dando per scontato che l’artista non comunica, non vogliamo sapere perché non comunica. È paradossale, ma è così.

Sempre nella descrizione della mostra è detto: «l’autore delle opere ha solo lasciato che gli portassero via quasi trecento dipinti la settimana di Natale». Partendo da questi trecento dipinti, come sei arrivato ai nove che compongono la mostra nello spazio Ordet, e perché hai scelto di portare alla luce proprio questi? Luigi D’Eugenio cosa ti ha detto quando – e se – ha visto la mostra?
Quei quadri sono una selezione dei lavori più recenti. Gli ultimi quattro o cinque anni. Non c’era lo spazio per fare di più e mescolare periodi diversi sarebbe stato un pasticcio. Luigi non ha mai visto la mostra. Il patto era che lui non sarebbe stato coinvolto e così è stato. Il suo codice fiscale, oltretutto sbagliato, lo ha scoperto dal web. Io e Oppy (Oppy De Bernardo; n.d.r.) siamo stati integerrimi. Che tenerezza, ogni due giorni ci chiedevamo: sta andando tutto bene? Stiamo facendo qualche errore?
Luigi D’Eugenio può essere definito un outsider e, osservando i suoi dipinti, sembra che i 25 metri quadrati in cui vive e lavora nascondano decine di stanze sul retro, luoghi segreti che l’artista può raggiungere anche senza uscire. Oggi, essere senza curriculum e senza mercato è, per un artista, una condanna, una medaglia all’integrità artistica, oppure, non ha niente a che fare con tutto questo ed è solo qualcosa che succede e su cui vale la pena –o magari neanche– farsi delle domande?
La domanda può diventare: L’arte è socialmente finalizzata? e la risposta è: No, grazie.